la recensione
Passato e presente di Zeno, l'occhio del Dottor S al Verdi di Gorizia

Uno spettacolo incentrato sul tema del doppio anche con i due attori sul palco, dove il vecchio (Haber) anticipa le battute del giovane (Onofrietti).
L’occhio del Dottor S incombe in teatro prima che il sipario si apra, con un sinistro richiamo al “Chien andalou” e alla psicanalisi del cinema di Buñuel. Il fischio del vento sibila nella sala, quella bora che sferza Trieste tramutando il mare in schiuma d’onda. Al centenario dalla sua pubblicazione - avvenuta nel 1923 – “La coscienza di Zeno” si presenta in una versione teatrale scarnificata, attraverso flash-back essenziali. È andato in scena ier sera al Teatro Verdi di Gorizia lo spettacolo tratto dal romanzo psicologico dello scrittore triestino Aron Hector Schmitz, noto con lo pseudonimo di Italo Svevo.
Una produzione nata dall’incontro del Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia con la Goldenart production. Grazie all’adattamento di Monica Codena e Paolo Valerio – direttore del teatro stabile, che ha anche curato la regia – Zeno Cosini prende letteralmente vita sul palco nei panni di Alessandro Haber. Il quale “non recita, vive”, come lui stesso ammette. Narrando episodi che hanno segnato la propria infanzia a Tel Aviv e mostrando i suoi stessi genitori riflessi in quello specchio magico, con scene e costumi curati da Marta Crisolini Malatesta. “Mi sentivo come Caino che uccise Abele”, racconta credendo di aver ucciso un suo compagno di classe.
“Anche i vermi hanno un’anima” ammette sprezzante. “Zeno ci rivela l’inciampo, l’umanità. Anche il personaggio di Alessandro Haber s’intreccia a questa inettitudine e talvolta, durante lo spettacolo, si sovrappone l’uomo all’attore, per sottolineare ‘l’originalità della vita’”, ribadisce Valerio. Così, l’amara ironia di cui il testo sveviano trabocca si riflette di rimando nella vita stessa di Haber-Cosini, in un gioco di sovrapposizioni continue fra passato e presente, attore e personaggio. Come nell’Ulysses di Joyce, nell’arco della serata si dipana l’intera vita di Zeno.
Uno spettacolo incentrato sul tema del doppio anche mediante lo stratagemma dei due attori presenti sul palco, dove il vecchio (Haber) anticipa le battute del giovane (Alberto Onofrietti), o dove i due battono assieme il bastone durante la seduta spiritica, sbellicandosi dalle risate con la complicità di due vecchi amici. Tensioni e pulsioni agitano i protagonisti, dilatando il costante flusso di coscienza fino a contaminare il pubblico. Il quale ha la sensazione di spiare il vissuto di Zeno-Haber-Onofrietti attraverso un gigantesco “buco nella serratura”, attingendo al proprio stesso esperire.
“La cosa fondamentale è riportare le emozioni di questo straordinario testo”, sottolinea Valerio. “L’idea è lavorare s’uno spettacolo corale, trattenere alcune pagine indimenticabili, che rimangono nel cuore, con una compagnia di undici attori e un grande capocomico come Alessandro Haber”, ancora il regista. Secondo cui “ciò che ci tocca è l’umanità di questo personaggio, la sua fragilità, la sua capacità di essere tutti noi”. Dopo il grande successo di pubblico - con il fiammeggiante “Tuttorial” degli Oblivion a inaugurare la stagione teatrale - ecco un lavoro di intarsio nelle coscienze individuali, un’introspezione tale da investire anche lo spettatore-voyeur, schiacciato dalle ossessioni di questo piccolo uomo borghese.
Un uomo che avrebbe voluto sposare Ada, e invece ripiega su Augusta, dopo l’ennesimo rifiuto di Alberta. Che cede al fumo di sigaretta, nonostante i soliti propositi di non fumare più, come cede all’amante, con la quale avrebbe voluto interrompere la relazione. “U.T.” e “U.S.”, scriverà nella proiezione sullo schermo tondo. Alludendo all’ultimo tradimento e all’ultima sigaretta. È la tradizionale figura dell’inetto, una sorta di idiota dostoevskiano che pensa ogni giorno “al mistero della morte”, ma capace di meravigliarsi di fronte “all’incomparabile originalità della vita”.
Grazie alle proiezioni di Alessandro Papa, gli scorci di Ponterosso si susseguono a quelli di una notturna piazza Unità, o al mare che si scorge fra i palazzi e le nuvole, moltiplicandosi attraverso questa gigantesca lente d’ingrandimento che mette a fuoco sentimenti ed emozioni. E il dolore di Zeno di fronte alla perdita del padre si confonde con l’enorme dolore dell’uomo Haber, il quale allude al proprio stesso padre “rumeno ebreo”, narrando ancora un episodio della sua giovinezza: “Ho poggiato la testa sulla sua spalla e ho iniziato a piangere”.
“La vita non è brutta né bella, ma è originale’”, ammette Zeno il Giovane, facendosi interprete della visione psicanalitica freudiana. E così quella grande poltrona in cuoio nero sulla quale Haber è costretto per motivi di salute - spostandosi di tanto in tanto con il bastone – diventa il luogo privilegiato dal quale scrutare il mondo, accettando la vita per come si presenta. Prendendo atto delle proprie fragilità e dell’abisso umano dentro al quale è facile perdersi.
Finché un giorno avverrà “un’esplosione enorme che nessuno udrà”, in grado di annientare il genere umano e sollevare ciascuno dal proprio dolore. “E la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”, conclude sarcastico Haber (e Svevo) con tragica ironia.
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