‘Vittoria’ di Cassigoli e Kauffman vince il Premio alla miglior sceneggiatura nell’anno di Go! 2025

‘Vittoria’ di Cassigoli e Kauffman vince il Premio alla miglior sceneggiatura nell’anno di Go! 2025

DAL PREMIO SERGIO AMIDEI

‘Vittoria’ di Cassigoli e Kauffman vince il Premio alla miglior sceneggiatura nell’anno di Go! 2025

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 24 Lug 2025
Copertina per ‘Vittoria’ di Cassigoli e Kauffman vince il Premio alla miglior sceneggiatura nell’anno di Go! 2025

Il film racconta adozione, immigrazione e confini attraverso i reali protagonisti di una storia vera. Il regista e sceneggiatore Kauffman, «raccontare le vite degli altri è come un ponte».

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Cicatrici, come quelle presentate nella sezione “Neuropatie. Il cinema e la cura dei traumi del corpo europeo”. E poi ci sono i sogni, quelli che si avverano, come la speranza di adozione di Marilena nel film “Vittoria” (2024) presentato anche all’81ma Mostra del cinema di Venezia nella sezione “Orizzonti Extra”. Un film scritto e diretto da Alessandro Cassigoli – assente alla premiazione - e Casey Kauffman, che si è aggiudicato il Premio Internazionale alla miglior sceneggiatura durante la 44ma edizione del Premio Sergio Amidei.

A svelarlo nella serata di ieri, 23 luglio, è stato il direttore di Transmedia Giuseppe Longo, intervenuto durante la tavola rotonda che si è svolta al Kinemax di piazza Vittoria e poi nella suggestiva cornice di Palazzo Coronini. «Insieme ad Alessandro, Casey ha girato “Vittoria” – spiega Longo – un film sull’adozione in cui gli attori sono i reali protagonisti di una storia vera, che alla fine è parsa una meravigliosa favola». E nell’anno della Capitale europea della cultura non sarebbe potuta mancare una riflessione sulla tragedia della guerra come accaduto durante l’incontro con Andrea Segre, Mimmo Calopresti, Eleonora De Majo e Stojan Pelko, a conclusione del quale è stata annunciata l’assegnazione del Premio. «Avete parlato d’immigrazione e confini – prosegue – in un momento in cui le notizie ormai ci arrivano così, mentre facciamo colazione e ci raccontano di Gaza».

«Ero a Jabalya – confessa Kauffman – durante la guerra del 2012, che in confronto non è niente. Trascorsi la notte con un uomo, che per non far udire il suono dei bombardamenti ai bambini giocava col sacco vuoto e sacco pieno. Ci feci un reportage. La mattina seguente andai a vedere l’esito dei bombardamenti, in cui rimasero uccisi dei bambini, ma la parte forte del reportage era incentrata su quest’uomo che cercava di gestire le paure». «Non ci può che restare il senso di colpa – commenta Calopresti – anche se poi ci accorgiamo che non c’è un mutamento».

E riflettendo sul tema dell’immigrazione Matteo Oleotto rimarca come «quello che manca è un cinema in cui la migrazione venga trattata in maniera più inclusiva. Siamo bombardati dalle immagini crude trasmesse dai giornalisti, ma abbiamo bisogno di sentire la normalità. Io sono di Gorizia, dove c’è un centro per minori, lasciati a sé stessi. Non vengono integrati, quasi con la speranza che accada qualcosa. Sarebbe bello, invece – auspica – un cinema che racconti l’immigrazione come un fenomeno di pace, che si contrapponga al governo secondo cui il migrante va fermato».

«La denuncia non è sbagliata – interviene Kauffmann – ma dev’essere accompagnata dalla normalità che umanizza. Le immagini di violenza cui si assiste quasi non sappiamo come gestirle». Un conflitto che rischia di far scivolare l’Occidente in una pericolosa assuefazione. «Ho lavorato per dieci anni in Medio Oriente – ricorda Kauffmann nell’intervista concessa a conclusione – nella testata giornalistica di Al Jazeera. Ma il film che ha vinto parla di altro, di un’adozione internazionale». Sullo sfondo la protagonista Jasmine (Marilena Amato), con un’idea «che alcuni considerano un po’ pazza – chiosa – un po’ irrazionale, quasi un capriccio».

L’ambientazione è quella di Torre Annunziata, dove Jasmine vive sbarcando il lunario come parrucchiera nel suo salone “Californie”. Dopo la morte del padre, che le torna in sogno ricorrente, è determinata ad adottare una bambina bielorussa nonostante le difficoltà economiche. «Decide di averla a tutti i costi – aggiunge – per seguire un istinto», andando controcorrente. La bambina - oggi quattordicenne - vive davvero a Torre Annunziata con i suoi fratelli, avuti dalla coppia prima dell’adozione.

«Io e Alessandro non siamo sceneggiatori – rivela – nel senso che non abbiamo studiato in una scuola per imparare a scrivere una sceneggiatura. Proveniamo entrambi dal cinema documentario e dal giornalismo, la nostra idea di partenza era quella di raccontare storie vere. Alessandro l’ha fatto con il documentario, io con il giornalismo sul campo con dieci anni in Medio Oriente. Era come se la forma, dopo un po’, non ci bastasse, che si dovesse scrivere di più anche utilizzando i metodi classici della drammaturgia per creare emozione ed empatia. Pian piano ci siamo avvicinati alla scrittura, ma è stato un procedimento graduale. Questo Premio è stato vinto negli anni da grandi sceneggiatori che solitamente sono partiti da una formazione cinematografica. Noi proveniamo invece da tutt’altro genere: dal realismo del documentario. Modellando e riadattando la sceneggiatura ai protagonisti reali, che hanno vissuto la storia sulla propria pelle. Quindi abbiamo lavorato con le stesse persone che hanno vissuto quest’esperienza».

Kauffmann non lesina poi una riflessione sul giornalismo, che secondo lo sceneggiatore è utile «a dare spazio a qualcuno, nei traumi, nelle ambizioni, nei periodi più duri della vita». Un mestiere che lo ha condotto in diverse aree di guerra, dalla Libia all’Afghanistan, alla Siria, alla Striscia di Gaza. «Sono di San Francisco – conclude - ma cresciuto a Firenze. Volevo fare questo tipo di giornalismo, che mi ha portato a documentare e mi ha fatto approdare al cinema. La base di tutto sta in questo voler raccontare le vite degli altri, come un ponte». Un ponte che unisca e possa lenire le ferite interiori, quelle di chi ha attraversato l’inferno delle guerre e di chi in Occidente convive con i sensi di colpa. 

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