Torna ‘Vose per Biagio Marin’. Musica e poesia a Santa Maria delle Grazie

Torna ‘Vose per Biagio Marin’. Musica e poesia a Santa Maria delle Grazie

LA SERATA

Torna ‘Vose per Biagio Marin’. Musica e poesia a Santa Maria delle Grazie

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 30 Lug 2025
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Il coro di voci dell'associazione 'Bavisela' ha letto i versi del poeta gradese. Lo spettacolo in sua memoria si ripropone ogni anno con il sostegno della parrocchia.

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Passati i temporali a Grado sono tornate a risplendere le stelle, non soltanto nel cielo terso. Dopo il successo di Uto Ughi in Sant’Eufemia stavolta a illuminarsi è stata la Basilica paleocristiana di Santa Maria delle Grazie, dove nella serata di ieri - 29 luglio – si sono letti gli straordinari versi del poeta gradese con accompagnamento musicale di archi, registrando ancora una volta il tutto esaurito. «In un tempo in cui siamo tutti ripiegati sui telefonini – riflette don Paolo Nutarelli – ogni tanto è bello chiudere gli occhi e ascoltare». «Don Paolo – prende la parola il docente Matteo Marchesan – ci offre sempre opportunità di cercare conforto dalle nostre fragilità interiori, donandoci bellezza, cultura e senso di comunità».

Quello di “Vose per Biagio Marin” è un recital che si ripropone ogni anno su iniziativa dell’associazione “La Bavisela”, ormai da tempo impegnata a diffondere le opere del poeta sul territorio. «Su consiglio di Marin – racconta Maria Marchesan dei “Stiata” alla nostra Redazione – lessi Platone e i poeti del Milleduecento, che trovavo troppo descrittivi. Ho dovuto fare questo sacrificio per arrivare a una poesia alta, a lui devo molto». Una serata magica durante la quale l’allieva di Marin ha interpretato alcune liriche fra le voci di Mariano Dudine, Alessandro Montanelli, Manuela Oberaigner, Cleo Azzani, Giacomo Pontoni e Soraya Benmansour, oltre che dell’insegnante e scrittrice Monica Maran. «Con “Le casonere” – chiosa quest’ultima – il poeta non è andato a raccontare com’è fatto il casone. Ha raccontato piuttosto il cuore delle donne gradesi».

Dagli uccelli che si librano in volo all’odore salmastro delle alghe fino ai “fiuri de tapo” e alle “tamerisi”, nei suoi versi ritroviamo l’anima errante dei pescatori e quella del “corcal” che fende i cieli per smarrirsi oltre l’orizzonte. «Se andate a un casone – prosegue – e aspettate il tramonto, tutto si placa e l’universo si addormenta», quello stesso che lampeggia nei versi del poeta graisano. Uno spirito di terra e sale in grado di dipingere con le parole i tramonti e interpretare con i versi il segreto legame con Dio. A ringraziare l’associazione è stata anche l’assessore alla cultura Lidianna Degrassi, che ha rivelato come l’amministrazione comunale sia in procinto di acquisire un lotto di documenti autografi e inediti del poeta per valorizzarne i contenuti. «Quest’anno – interviene – ricorrono i quarant’anni dalla scomparsa del poeta, ma anche i cinquanta dalla morte di Pasolini. Tra i due ci fu un grande carteggio, oggetto di una mostra che si terrà da novembre a gennaio al cinema Cristallo e di una pièce teatrale». Un fil rouge con l’universo del teatro che si riscontra anche in alcuni versi dedicati a Marchesan.

«Maria dei “Stiata’ no la vol che moro», ricorda lei stessa citando il Maestro. «Dentro l’odore della mia “bauta” – spiega – ho l’odore del suo alloro». La “bauta” nel dialetto veneto indica la “maschera”, quasi che Marin intendesse richiamarsi al celebre monologo shakespeariano di “As you like it” in cui “Tutti gli uomini e le donne non sono altro che attori”, maschere che segnano il firmamento come luccicanti meteore. «Per me è la frase più grande – confessa – insieme a quella in cui di me disse “in ciesa la canta e in genogion la prega”. Che mi ha dato grande soddisfazione, perché non credevo di avere questa fede. Me l’ha suggerita lui attraverso la poesia». Un ardimento di cui si nutre lo stesso poeta, secondo cui «Xe destin de brusâ/ de vîve ardendo». Da questo continuo bruciare non resta che cenere, oltre la quale «Passemo via/ comò caligo» fino a disfarci in nebbia. Di qui l’importanza della memoria e delle letture da tramandare alle nuove generazioni, affinché il tempo non le vada stemperando in brusio inconsistente.

Così nella raccolta “Il non tempo del mare” (1964) a vincere il trascolorare dei giorni è l’eternità delle acque azzurre con le sue distese sconfinate, battuto da quel “Maistral d’istàe” che tende la vela verso nuovi orizzonti. Versi dove gli astri attraversano l’oscurità «dute senza pase», allontanandosi «per strade vane,/ dolorose, e le tase», inghiottite dall’immensità dell’universo. Uno smarrimento simile a quello del marinaio nella sua piccola «batela», abbandonato a contemplare la notte sterminata sull’orlo dell’abisso. «Lui credeva nel Creatore – rimarca Maria con grande emozione – nel firmamento e nella legge che governa tutto il Creato. In questo senso era un grande religioso e un grande mistico». Liriche pregne di tensione dove la furia della bora si placa nella staticità della laguna, che la barca fende mentre «l’abisso la tenta». Con pari grandezza hanno intersecato le letture il violino di Elisa Battistella e il violoncello di Lucia Gruden, intonando la “Bourée” e “Lascia ch’io pianga” di Georg Friedrich Haendel, per poi esibirsi nel “Suspir da l’anime” di don Oreste Rosso. Un lamento vibrante all’unisono con la «tristessa de la luse estiva» che riecheggia nel «sielo svodo sora ‘l mar de Gravo», a restituire la «fita in cuor» dolente quanto una ferita che non rimargina.

Malinconia irrequieta, riverbero di quella conseguente alla perdita dell’amata Pina e del figlio Falco ucciso in guerra. «Penso che sotto sotto – ammette il marito di Maria Franco Lauto – avesse un rimorso, perché nonostante Falco fosse studente d’ingegneria, lui lo incoraggiò ad arruolarsi. Essendo studente avrebbe potuto evitare, invece s’iscrisse alla scuola per ufficiali per poi partecipare alla campagna in quella che oggi è Slovenia. Rimanendo ucciso in un’imboscata dei partigiani». Di Falco rimane “La traccia sul mare”, un volume di lettere unito a riflessioni in forma di diario, e quella nostalgia vibrante nei versi del padre o nella prosa di “Vele in porto – Piccole note e frammenti di vita. 27 agosto 1946 – 3 febbraio 1950”. Un dispiacere che tuttavia non smorza «nel cuor, la meravegia» che riempirà i suoi ultimi anni di vita, quando nel 1982 scriverà «Me vardo in alto el firmamento,/ el par in pase/ e duto tase,/ tase anche el vento». Per Biagio è il rivelarsi di quella luce che affiora in seno all’eternità «che vegia», preghiera ultima che Dio lo accolga nella sua quiete.  

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