EMERGENZA MIGRANTI
Alla stazione di Gorizia di notte: i racconti di chi aiuta e di chi passa

Giovani e famiglie da Asia, Africa, Medioriente: da gennaio a oggi 1300 le persone transitate in città in attesa di riprendere il loro viaggio.
Ieri sera erano solo in tre. Uno arriva dall'Iran, l'ultima tappa sono stati due giorni in Slovenia, raggiunta a piedi dopo aver attraversato la Turchia (dove ha lavorato per sei anni), la Bulgaria, la Serbia e la Bosnia. Sorride, nonostante tutto. Accetta un pacchetto di crackers e intanto racconta come può parte della sua storia. Nella sala d'aspetto della Stazione di Gorizia ha appena conosciuto quelli che, presumibilmente, questa mattina all'alba sono diventati i suoi compagni di viaggio.
Più riservati, uno viene dall'Afganistan, ha iniziato il suo viaggio 6 mesi fa attraversando la Grecia, il Montenegro, l'Albania, la Bosnia e la Slovenia, sempre a piedi, nei boschi o – come dice lui - «in the jungle». Il suo obiettivo è arrivare in Germania. A Bologna, dove spera di ricongiungersi con degli amici, è invece diretto un giovane pachistano che ha iniziato la sua avventura due mesi fa. Il ragazzo iraniano sorride, gli altri sembrano più provati: forse lui non ha ancora capito che dovranno condividere un pezzo di marciapiede e scaldarsi stringendosi l'uno all'altro fino al momento di poter riprendere il loro viaggio, questa volta in treno.
Ogni sera, alla stazione, arriva qualcuno: nella speranza di proseguire, senza sapere di dover invece attendere l'alba a terra, all'esterno, che si tratti di giovani uomini, famiglie con bambini, donne in stato di gravidanza. La situazione è la stessa da anni, anzi, no: negli ultimi mesi, con i lavori in Piazzale Martiri della Libertà, non ci sono neanche più le pensiline a riparare dal vento e dalla pioggia, né le panchine per sollevarli dall'umidità del marciapiede.
Ogni sera, alla stazione, arriva qualcuno: nella speranza di non trovare nessuno da dover accudire, scaldare, rifocillare. Per una semplice questione di pietà umana verso persone che hanno viaggiato per mesi a piedi, con ogni condizione climatica, che spesso sono stati maltrattati e privati dei loro pochi beni.
Ieri sera, alla stazione, siamo arrivati anche noi: per raccogliere qualche storia, per capire i motivi di questi viaggi e i motivi che spingono i volontari ad aiutare, nonostante sia una goccia nel mare e non si possa poi sapere quale sia il finale di questi racconti.
Da inizio gennaio sono state 1300 le persone passate per Gorizia, la sera: li chiamano “i transitanti”, persone di passaggio che vengono però bloccate in città dall'assenza di treni notturni. 30 le famiglie che si sono avvicendate da inizio anno, con 150 bambini e ragazzi a cui aggiungere altri 80 minori non accompagnati. Il flusso è stato sempre piuttosto costante e solo nelle ultime settimane i passaggi sono diminuiti.
«Prestiamo il nostro aiuto dal 2022 – ci spiega Francesca - quando la situazione era molto diversa. A quel tempo c'era l'associazione “Gorizia solidale”, si occupava dei richiedenti asilo che stazionavano alla Casa Rossa: c'erano anche 50, 60 persone, perlopiù di nazionalità egiziana. Un giorno una volontaria ha chiesto se ci fosse qualcuno disposto ad aiutare e così abbiamo iniziato a trovarci. Sulla carta siamo in 12 ma in realtà il nostro numero varia (per contatti, su facebook è attiva la pagina “Insieme con voi. Gorizia solidale” ): cerchiamo di organizzare dei turni ma venire qui alle 23, talvolta fino alle 2 di notte, non è facile per chi ha famiglia o deve alzarsi presto al mattino».
«Dirlo può sembrare una banalità ma qui passa veramente il mondo: l'altra sera abbiamo visto una famiglia di ceceni e una del Tagikistan, poi vediamo persone dal medioriente, dall'Asia, da tutta l'Africa subsahariana ma anche molte famiglie russe con ragazzi di 15-16 anni che scappano dalla leva obbligatoria – continua Francesca – Adesso ci sono tantissimi siriani, curdi, iracheni, iraniani. La maggior parte delle persone sono diffidenti, soprattutto è difficile per loro concepire l'idea che qualcuno li aiuti gratuitamente, senza volere nulla in cambio».
Qualcuno arriva con uno zainetto, altri solo con il cellulare e, fra le prime richieste, i cavetti per ricaricarlo o le zone in cui c'è il wi fi. «Sul sito https://www.meltingpot.org/ si racconta che alle frontiere, oltre ai vari maltrattamenti, spesso vengono rotti i cellulari o compromesse le uscite per le prese» ci raccontano.
Una coperta, di lana o termica, giubbotti, sciarpe; qualche biscotto, merendina, un po' di tè caldo ma soprattutto qualche parola per ricordargli che sono persone nonostante ciò che hanno attraversato possa aver messo in dubbio quest'ovvietà: ecco l'aiuto offerto da Francesca, Massimo, Alessandro, ma anche da Saeed e Manzoor.
Saeed ha vent'anni, è arrivato in Italia da solo. Trieste, Tolmezzo e poi, quando ha raggiunto la maggiore età, è potuto venire a Gorizia per ricongiungersi con lo zio che abita proprio sopra la stazione. Lavora alla Biolab e quando si è accorto dei gruppetti di volontari che ogni sera si ritrovavano per aiutare le persone in transito è sceso per portare qualcosa di caldo e tradurre le parole di quanti arrivano da Pachistan, Bangladesh, India.
Anche Manzoor è pachistano: da anni con il suo sorriso gentile cerca di avvicinare chi spesso non vuole aprirsi, preoccupato solo di ciò che lo attende. Alessandro ha iniziato un anno e mezzo fa, ma tra poco si trasferirà a Pordenone per motivi di studio. Eppure vuole continuare ad aiutare: per lui è naturale, così come per tutti gli altri.
Il freddo non è ancora pungente ma la pioggerellina di ieri fa salire naturale la domanda: «Perchè lo fate?». E l'interrogativo si rompe davanti alla risposta, ancor più naturale: «Difficile sarebbe spiegare perchè non farlo. Sono stata scout e mi sono sempre occupata di migrazione. Ho voluto aiutare quando a Casa Rossa e alla stazione c'erano centinaia di persone anche per rendere Gorizia più dignitosa e accogliente» spiega Francesca.
«Possibile vedere e tirare avanti? Non ce la farei, e come me tutti vogliamo dare un segnale di umanità e accoglienza – interviene Massimo, che aggiunge – un anno fa una sera in stazione c'erano un sacco di persone e stava piovendo tantissimo. Avevamo finito le scorte di abbigliamento ma erano tutti bagnati fradici. A un certo punto arriva un gruppo di ragazzi afgani, per età avrebbero potuto essere miei figli: non ho avuto il tempo di chiedergli di cosa avessero bisogno quando vedo uno di loro chinarsi nel piazzale della stazione per bere dalla pozzanghera».
«Quindi, alla domanda “chi me lo fa fare” la riposta è proprio questa: non accettare come cittadino europeo, cittadino di quella che sarà la Capitale Europea della cultura, che per bere dell'acqua un ragazzo si chini verso una pozzanghera. Credo che la prima cosa da fare sia accogliere queste persone: poi possiamo parlare del fatto se abbiano il diritto di stare sul nostro territorio, ma non possiamo far finta di non vedere tutto questo».
Foto Daniele Tibaldi








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