Scolarità e lingue dell'Impero nell'Ottocento del Goriziano: corsi e ricorsi

Scolarità e lingue dell'Impero nell'Ottocento del Goriziano: corsi e ricorsi

La particolarità

Scolarità e lingue dell'Impero nell'Ottocento del Goriziano: corsi e ricorsi

Di Ferruccio Tassin • Pubblicato il 30 Lug 2022
Copertina per Scolarità e lingue dell'Impero nell'Ottocento del Goriziano: corsi e ricorsi

Ferruccio Tassin riporta alcuni aneddoti dai vari decanati diocesani nei quali varie erano le lingue di insegnamento.

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Nell’ ’800 delle nostre terre, si cercavano pastori o insegnanti che conoscessero le lingue locali.
Alcuni pretendevano di più. Giovanni Battista Segalla, imperial regio dispensatore di tabacchi e carta bollata a Canale, dal parroco locale, voleva per il figlio la istruzione nella sua madre lingua friulana o italiana; ebbe netto rifiuto.

Più pacificamente, dando per scontata la convivenza di lingue diverse, i rappresentanti comunali e i “curaziani” di Mernico, Scriò e Collobrida (distretto di Quisca), chiedono all’Ordinariato di Gorizia che lasci il curato Giuseppe Kadrisch: predica le feste in “lingua schiava … possiede perfettamente la lingua friulana indispensabile in queste località, essendo molte famiglie che non capiscono nulla affatto la lingua Schiava, ne Kragnolina”.
Ancora nel 1851, il decano Tirindelli scrive alla podestaria di Fiumicello che, per il posto di scuola e di cappellano comunale, l’ordinariato ha proposto i sacerdoti “Antonio Grioni, Friulano, ed il Reverendo Kaffou, Slavo”: viene percepita in pieno l’appartenenza, ma la prosecuzione della lettera, che propone di preferire il Grioni, fa capire che il motivo è pratico: “... Il sottoscritto sarebbe d’avviso, che codesta Spettabile Podestaria presentasse il primo nominato a preferenza del secondo, in vista, che questi essendo slavo di nascita, non avrà la perfetta conoscenza della lingua friulana, necessaria a chi deve istruire figli friulani”.
Il friulano era già stato una lingua protagonista per la scuola e nella scuola.
Per la scuola, quando, negli anni Quaranta dell’ ’800, su impulso dell’ordinariato arcivescovile (era come il nostro provveditorato agli studi), i parroci furono invitati a parlare dal pulpito sulla utilità della scuola (e a mandare copia delle prediche in curia).
Allora si videro testi in italiano, tedesco, sloveno e friulano.
Nella scuola, con i programmi: fin dalla scelta del maestro, si chiedevano, nella larga autonomia dei concorsi, conoscenza di italiano, friulano, tedesco, musica e organo: il maestro, per arrotondare, era talvolta direttore di coro e organista, oltre che insegnante di musica.
Un esempio più complesso, i programmi di Visco, dove si insegnava anche il tedesco (forte tradizione scolastica era presente pure ad Aiello).
Nella II delle tre classi, il punto 2 del programma, il leggere: leggere correttamente traducendo il contenuto in lingua friulana. Dal libro prescritto: ‘Cento brevi racconti’ ”.
Più eloquente il programma di III, dove l’uso del friulano è previsto, per l’italiano e il tedesco.
Prendiamo i punti 2 e 5: “2. Il leggere italiano: leggere correttamente colla debita interpunzione, traducendo il contenuto in lingua friulana. Dietro il libro prescritto: Libro di lettura ad uso della III classe.
5. Lingua tedesca: dal libro scolastico nominato Fibel furono partecipati gli esercizj da pag. 1 fino 38, e questi compitati, sillabati e letti, le parole più comuni spiegate e tradotte nell’idioma italiano e friulano”.
Si insiste sul friulano nella scuola domenicale attiva la domenica, per impedire l’analfabetismo di ritorno.
Qui si va delineando l’interesse di Karl von Czoernig (funzionario statale austriaco, pioniere della statistica e storico della Contea) per il friulano.
Trent’anni prima, le parole del vescovo di Gorizia Giuseppe Walland avevano destinato un libro di preghiere (tradotto dal parroco di Lucinico Antonio Leonardis, poi vescovo di Trieste) “par uso del Popul Furlan della so Diocesi”.

Non solo: gli aveva con naturalezza attribuito la dignità di popolo della sua diocesi insieme con quello dei “Todescs e Cragnolins”: “Al bon popul furlan. Bon e chiar Popul! I Todescs, i Cragnolìns, han lis lors prejèris nel lor lengaz, parcè non varessino di velis anchia Vò? E parcè Vò dovaressis preà in un lengaz, che, o no capiso affat, o no capiso tant quant la uestra propria lenga…”.
Štefan Kociančič (1818 – 1883), linguista e storico, ha una nota quasi ironica per il Leonardis: sull’uso del friulano, scrive che, all’atto della traduzione, quegli avrebbe pensato “ut omnes reliqui Curati ubi haec lingua viget, libellum suscipiant et introducant. Quod vero aliter contigit, quam cogitaverat, et huc usque unica ecclesia parochialis Lucinicensis lingua furlana utitur”.
Non è improbabile che il friulano “di chiesa” sia stato lontano dal linguaggio popolare, a giudicare dalle prediche del tempo, a volte latineggianti, quasi più italianizzate del friulano dei nostri giorni.
C’è la preoccupazione che tra maestri, sacerdoti e popolo esista consonanza linguistica, ma, allora la ragione era solo pratica: farsi comprendere, lingua di mediazione.
Così la pensa l’ispettore decano don Pietro Tirindelli: lo scrive in una lettera all’Ordinariato di Gorizia.
La domanda posta è qual uso si faccia della lingua friulana, e se venga riconosciuto il vantaggio di introdurre la lingua tedesca.
Risposta: nelle scuole del distretto si fa imparare catechismo, conti, ecc. in italiano e non nel patrio dialetto. “Si pratica solo di spiegare, e di far ripetere alli scolari in lingua friulana l’appreso a memoria, o quello che vien letto nelli libretti prescritti per le scuole di campagna…”.
La informazione più interessante è una parte tagliata nella minuta, forse non presente nel testo inviato. Dichiara come l’uso del friulano nelle scuole fosse generalizzato: “Quello poi che lo scrivente mai ha approvato, né approva, si è l’uso di quasi tutti i Maestri e Maestre di parlare in friulano coi rispettivi scolari anche fuori del bisogno delle spiegazioni e ripetizioni sopramentovate quale pratica dovrebbesi allontanare da ogni scuola con un divieto rigoroso, che partisca da Codesto…Concistoro, coll’addossare ai rispettivi Parrochi l’immediata sorveglianza sopra l’esatto adempimento di questo punto da parte dei Maestri e delle Maestre”.
Appare evidente che il decano fiumicellese (sul tedesco, scriveva che, per i pochi destinati a continuare, si sarebbe potuta introdurre una scuola biennale nel capoluogo del decanato) puntasse sul far apprendere bene l’essenziale ai fanciulli nelle lingua più comune nelle comunicazioni scritte, giudicando immutabile la condizione sociale della povera gente, tanta era la disparità. Ma appare altrettanto evidente che - sono le sue, già accennate, parole - c’è l’uso, da lui disapprovato “di quasi tutti i Maestri e Maestre di parlare in friulano coi rispettivi scolari anche fuori del bisogno delle spiegazioni e ripetizioni soprammentovate…”.
Quanto fosse diffusa la mentalità non si sa; certo è, ad esempio che la visione di un altro ispettore - decano, quello di Visco, Antonio Marcuzzi, differiva alquanto sulla introduzione del tedesco, e non è fuori luogo pensare che al friulano attribuisse un peso maggiore.
In una pergamena posta sotto l’altare della chiesa appena eretta nel cimitero, oltre ai dati di rito, sul retro, aggiunse alcune righe in friulano, sull’uso delle lingue: “Il dialet che si favelle a Visc l’è il Furlan. Le Liturgie però si fas solamentri in Latin secont il rito di S. Mari Glesie Cattoliche Apostoliche Romane. I affars di Uffizi si tratin in Italian e in Todesc. La religion che si professe jè la Cattoliche, la qual jè pur la dominant nello Stat”.
Comunque, aveva voluto scrivere nella sua lingua madre, anzi, per rispetto del posto che occupava, nella varietà del paese di adozione, non di quello natale (Tapogliano).
Non nata la possibilità di far perno sulla borghesia, per l’affermazione di popolo e lingua, un’occasione è andata perduta nella scuola, in nome di una maggiore utilità di altre lingue. Forse è una direzione in cui si può indagare.
Radicalmente diversa la situazione per gli Sloveni: clero e maestri furono cardine del loro riconoscersi in una identità nazionale e veicolo fu la scuola: vennero presi provvedimenti per l’insegnamento nella loro lingua nel 1846.

Un anno dopo, il Seminario di Gorizia introdusse un corso di sloveno, che, vide nel 1849, ben 80 chierici sostenere l’esame.
La scuola, per loro, compreso il settore femminile, fu un punto cardine nello sviluppo della appartenenza nazionale.
In una statistica del 1885, l’unico ad avere il 100 % di alfabetizzati era il distretto sloveno di Aidussina.
Ciò che si è detto è solo per accennare alla storia. L’oggi invita a semplificare, ridurre, unificare: più la gente si impecora, più facile diventa la vita del pastore.
Non quello buono, in cerca della smarrita, ma quello tosto, che afferma di preferire lo studio di cinese e arabo, più utili del friulano … tanto sa che nessuno li proporrà per davvero; dunque, né questo, né quello. Si è visto che gli Sloveni, pieni di dignità e orgoglio culturale, insegnarono la loro lingua a tutti i livelli, sostenendola con apprendimento di canti, predicazione dei sacerdoti, gruppi culturali (le čitalnice).
Il culmine si toccò nella scuola, e col raggiungere la funzione di lingua politica.
Anche i Friulani cantavano nella loro lingua; avevano avuto la dignità dell’insegnamento linguistico per gli aspiranti al sacerdozio, ma solo nel ’700; nell’età successiva non lo avevano mantenuto.
A Gorizia, la gente era quadrilingue e il friulano era la lingua d’uso più diffusa, diffusa nella poesia, nelle traduzioni (il Bosizio al voltâ par furlan persino l’Eneide).
Ma, se si usava il friulano nelle scuole popolari, probabilmente lo si preferì come veicolo per raggiungere le lingue più importanti (italiano, tedesco). Così il passaggio al piano superiore, come per lo sloveno, non si ebbe, coi risultati che sono agli occhi di tutti. Dopo l’arrivo dell’Italia, e più all’epoca fascista, allergica a tutto ciò che italico e irreggimentato non era, si tentò di spegnere l’uso di sloveno e friulano.
Quel popolo resistette; il nostro calò le brache, e con le brache a mezz’asta non si corre, neppure si cammina bene.
In questa calda estate, ancora troppa ripete che calarsi le brache è intelligente: puoi sentire il vento che ti accarezza le gambe, e ti rinfresca l’anima.
Solo che, ancora una volta, hanno omesso di aggiungere che … con le brache calate, non si corre! 

Nella foto, decanati dell’archidiocesi di Gorizia nell’Ottocento: i distretti scolastici ricalcavano i decanati.

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