«Salato come il mare, impetuoso come le onde»: Maria Marchesan “Stiata” e il marito Franco ricordano Biagio Marin

«Salato come il mare, impetuoso come le onde»: Maria Marchesan “Stiata” e il marito Franco ricordano Biagio Marin

Il personaggio

«Salato come il mare, impetuoso come le onde»: Maria Marchesan “Stiata” e il marito Franco ricordano Biagio Marin

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 27 Lug 2025
Copertina per «Salato come il mare, impetuoso come le onde»: Maria Marchesan “Stiata” e il marito Franco ricordano Biagio Marin

«Un’incredibile lucidità di mente fino agli ultimi anni di vita». L’incontro con la redazione del Goriziano, in memoria del Poeta graisan a quarant’anni dalla sua scomparsa.

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Mentre da lontananze estreme riecheggiano tuoni sulla “Bassa”, il vento sbuffa e trascina le nubi fra sprazzi d’azzurro, in cui svetta il campanile di Sant’Eufemia. Qui sull’isola dove il sole s’illumina d’immenso, nella frescura di fine luglio, il cuore di Grado si apre con infinita dolcezza. È al terzo piano di un condominio a due passi dal mare che mi attende l’ultima allieva in vita di Biagio Marin, l’energica e acuta Maria Marchesan Stiata”. Con grande ospitalità mi accoglie insieme al marito Franco Lauto in un soggiorno ricolmo di libri, per raccontare al nostro quotidiano i segreti del poeta che nel 1981 venne candidato al Premio Nobel.

«Ho avuto la fortuna di stargli assiduamente accanto per una decina d’anni – ricorda Franco con gli occhi ardenti d’affetto – andando da lui due o tre volte la settimana». Pomeriggi nei quali il poeta da tempo afflitto da cecità dettava all’amico le sue lettere. «Dal ’76 all’’85 – rammenta – quando morì». Quello del 1985 fu un inverno gelido persino per l’Isola del Sole, perché in febbraio la neve imbiancò le spiagge e le raffiche di bora la cristallizzarono in un manto scintillante. Fu proprio alla Vigilia di Natale di quell’anno che il cuore del poeta cessò di battere, ma non i suoi versi. Che immortali paiono rapprendersi fra le onde lievi della laguna in scintillii di luce, al pari delle letture commoventi di Maria, Franco e del loro amico Albano presente con noi, intonate in autentico dialetto gradese. «Intratteneva rapporti con tante persone di cultura – prosegue – come Prezzolini che morì centenario, al quale scrisse negli ultimi anni di vita. Fin dai tempi de “La Voce”, quando stava a Firenze, con lui mantenne sempre solidi rapporti». Fra i tanti intellettuali che frequentavano casa Marin c’era anche il filosofo Massimo Cacciari, lo scrittore Claudio Magris e il poeta e ingegnere Gino Brazzoduro, che compare nel volume “Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978 – 1985” edito da Fabrizio Serra.

«E così – rimarca - io stesso ho avuto modo di conoscere questi uomini di cultura... Poi si andava anche in giro: quando gli assegnarono il Premio della cultura veneta lo accompagnai in Valpolicella. A pranzo c’era anche Zanzotto, e per Premio offrirono due “boti” di recioto. Alle volte si trattava di lettere impegnative che trattavano di argomenti elevati. Lui dettava, dettava, poi alla fine: “Be’, Franco, leggiamo?”. Si leggeva, ed era tutto perfetto, non occorreva alcuna correzione. Ebbe un’incredibile lucidità di mente fino agli ultimi anni di vita». E poi c’erano le poesie, che Marin annotava sulle agende della Cassa di Risparmio. «Gli procuravo all’inizio dell’anno cinque o sei agende – riprende – e lui le scriveva lì, come poteva. Dopo si trattava di decifrare e ricostruire. Le prime poesie sono belle e descrittive, però le ultime sono le più alte. Perché è arrivato all’essenza della poesia, alla parola ultima, affrontando i temi essenziali della vita».

Versi altissimi traboccanti di luce affiorano ne “Le litànie de la Madona” (1981), commenti poetici alle lauretane racchiusi nel volumetto curato dal critico Fulvio Panzeri studioso del milanese Testori. A questi si uniscono i “Canti de la prima istàe” dello stesso anno, impregnati di estatica spiritualità e raccolti nel volume “L’isola/The island” dall’editore Del Bianco «per segnalare un poeta che dalla piccola isola» seppe parlare «al cuore dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo». «Marin mi chiamò “dei Stiata” per darmi l’onore di una casata formidabile – interviene Maria – poi lui era un grande maestro. Donava tutto il suo sapere come Socrate», i cui allievi se ne innamoravano ascoltandolo parlare. Un oratore, Marin, che catturava l’animo di uomini e donne trafiggendoli con la semplicità dei suoi versi. «Era un narratore che infondeva poesia – aggiunge – uomo di un misticismo unico. A volte mi ritrovavo a parlare di Dio per ore intere osservando il mare fuori alla finestra, che cantava con le onde bianche schiumeggianti, e senz’accorgermene mi scoprivo inginocchiatagli accanto. Perché lui stava seduto nella sua poltrona, e oltre a essere cieco era anche sordo. Restavamo così a parlare di Dio ore intere. Nei suoi versi affrontava sì la quotidianità, ma l’elemento più grande della poetica era la sua spiritualità».

Una contemplazione che emerge fra dune di sabbia ed eterne estati in cui l’amore si fa vento. «Te vogio ben comò la vela al vento», scrive nei “Canti dell’isola”, dettati da un desiderio non dissimile dalla saudade di Pessoa. «In mezzo alle sue parole e metafore – spiega Maria – c’è la grande poesia da premio Nobel. È stato un grande maestro per tutti. In un paese piccolo di pochi abitanti con i casoneri delle isole, che non era certo la Firenze di Dante e altri pittori o scultori, non avevamo alcuna possibilità che potesse nascere un grande poeta come Marin. E invece è nato, e gli dobbiamo molto. Perché dal nostro salato e selvaggio modo di essere, avevamo bisogno di qualcuno con una voce più alta».

Un uomo schietto e limpido dal quale zampillavano fiotti di poesia a cui amici e conoscenti si abbeveravano. «Per noi è stato una persona semplice, in quanto la poesia e il divino non si trovano lontano. È tutto semplicità. Come quando un ruscello sgorga dal monte dissetando un filo d’erba, dal quale nasce una piccola foglia. E lì c’è tutta la gloria di Dio». Un poeta che portò cultura in una città separata dal resto del mondo fino agli anni Trenta. «Solo nel 1936 venne costruito il ponte – precisa – ma fino ad allora eravamo rimasti isolati, quasi ci si sposava tra cugini. La nostra era una mentalità piuttosto arcaica e medievale, dalla quale ci liberammo con l’arrivo del ponte, pur restando salati come il mare. Anche Biagio Marin era salato come il mare, impetuoso come le onde. Fulmini e saette, quando accadeva. Poi si placava pian piano, e questo mare brillava nella luce del sole».

Una poesia satura di salinità in cui le frontiere non hanno alcuna ragione d’essere. «Andava oltre il confine – rimarca – perché attraverso i simboli si va oltre. L’anima spinge i poeti a navigare in un altro mondo, che è sempre quello quotidiano, ma diviene pieno di luce e religione». Al ricordo del figlio Falco morto in Jugoslavia e all’assenza delle figlie lontane si aggiunge nel poeta la nostalgia per qualcosa d’irraggiungibile. «Guardava il cielo lavato dalla pioggia e limpido di turchino – riflette - trasformando tutto in poesia». Centro del suo peregrinare in versi sarà sempre Grado, che per Biagio rappresenta «un universo, una galassia, il Dio Creatore», conclude Maria. La quale insieme a Franco e ad Albano legge, infine, i versi del poeta nell’originale dialetto gradese – il veneto arcaico – con tenerezza commovente. Mi congedo dal loro abbraccio per recarmi all’Isola delle Cove, dove il poeta riposa insieme alla moglie Pina. Sulla tomba si legge l’epigrafe scritta di suo pugno, la “Regina pacis” delle “Litànie” che Maria mi ha prestato, un prezioso libretto con l’autografo del poeta sul frontespizio. Le nuvole corrono leggere, mentre l’Isola delle Cove scompare alle mie spalle come in un quadro di Böcklin. 

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