DAL FESTIVAL
La Roma del Medioevo rivive con Alessandro Barbero, la conferenza registra il pieno al Verdi

L'iconico storico e professore ha conquistato la platea di èStoria raccontando le vicissitudini della città in un'epoca «schiacciata nel luogo comune della decadenza».
Nel giro di pochi minuti dall’apertura delle prenotazioni online, i posti disponibili a sedere si sono esauriti già giovedì sera. Una lunga fila ha atteso fuori dalle porte del Teatro Verdi di Gorizia ieri, alle 20.30, per poi accogliere con un caloroso applauso l’ospite fra i più attesi di questa XXI edizione del festival èStoria.
Alessandro Barbero è salito sul palco dal corridoio della platea, passando a sorpresa fra le file degli spettatori. Puntuale l’inizio della sua conferenza o, meglio, del suo racconto, incentrato su una città «che tutti conoscono ma in realtà nessuno conosce davvero: la Roma del Medioevo». Una Roma che si situa tra quella antica, imperiale, e quella dei Papi dal Rinascimento in poi, «rimanendo schiacciata nel luogo comune di un’epoca di decadenza». Un oblio fisico, oltre che storiografico, poiché la miriade di casette chiese sorte nel periodo storico dei Comuni fu in larga parte distrutta durante la Prima Guerra Mondiale – salvo poi, grazie al lavoro di una nuova generazione di studiosi, venire riscoperta in termini di rilevanza storica al di là degli stereotipi.
Ha spiegato infatti Barbero che «la Roma del Duecento e del Trecento fu una città vitalissima, popolosa, ricca di attività, con un’aristocrazia imprenditoriale “moderna” al pari di quella toscana e milanese e con compagnie bancarie attive a livello internazionale». Una «straordinaria metropoli europea» per gli standard dell’epoca, che «a vederla appariva immensa»: la cerchia delle Mura Aureliane, infatti, racchiudeva una superficie di ben 1.400 ettari, «ovvero il quadruplo di Parigi o di Firenze». Centro di doppio potere, sia quello ecclesiastico – fu comunque capitale dell’amministrazione che governava la vita clericale in tutta l’Europa occidentale – che civile, in quanto città di residenza di nobili e grandi famiglie rimaste influenti nel corso dei secoli come gli Orsini e i Colonna, i Caetani e i Savelli.
Una realtà che all’epoca cercava a fatica di rendersi indipendente rispetto all’influenza papale: fu durante il periodo della “cattività avignonese”, nel Trecento, con i Sommi Pontefici mancanti poiché di stanza nella città francese, che Roma divenne autonoma e riuscì a governarsi da sola come gli altri Comuni medioevali italiani. Lo storico ha ripercorso le tappe di tale processo, alternandole al racconto quasi fotografico – nel suo stile appassionante, ironico e sempre attento al particolare – di quella che fu la vita cittadina: fra basiliche, vigneti, campagne, dal “mercato del sabato” al Campidoglio – «luogo dove cominciarono la maggior parte dei tumulti e delle rivolte» – fino alle corporazioni di artigiani e ai 13 rioni in cui l’ex capitale dell’Impero era divisa.
Un popolo peculiare, quello del Medioevo romano, agitato spesso da diversi fermenti e dal carattere sanguigno: Barbero ne ha fatto il ritratto emblematico parlando dei “Giochi del Testaccio”, sorta di grande festa annuale promossa da lauti finanziamenti durante la quale «tori e maiali venivano liberati, inseguiti e squartati dalla folla dei partecipanti», i quali poi «portavano sulla punta della spada - così raccontò un viaggiatore inglese - un pezzo di interiora sanguinanti alle loro donne, così da dimostrare di essere veri uomini. E chi non ci riusciva, doveva astenersi dai rapporti sessuali fino all’anno successivo».
La violenza fu un elemento costante e distintivo di questa civiltà «culturalmente ricca e grande», diffusa anche ai vertici del Comune e delle potenti famiglie sopra citate che lo dirigevano, i cosiddetti “baroni”: le loro lotte reciproche per contendersi il potere, ha raccontato il professore di Storia Medievale, «sono qualcosa che oggi facciamo fatica a immaginarci». Leggendo passi dalle cronache scritte in lingua popolare di un Anonimo Romano, Barbero ne ha fornito diversi esempi, soffermandosi infine sulla storia di «colui che durante l’assenza papale sognò di ridare vita e potenza a Roma, fermando le prepotenze dei baroni e riportando la pace attraverso una “dittatura del popolo”», ovvero Cola di Rienzo.
Personaggio di umili origini, studiò i classici latini – «forse fu questo che lo portò alla deriva» - scalò la società romana del tempo fino a diventare, su incarico del Papa, controllore dei fondi pubblici del Comune. Crescendo sempre più in termini di consenso e istigando le classi popolari, riuscì a prendere il potere con un colpo di stato. Da qui, però, la parabola discendente, a causa di leggi severissime con cui condannava a morte ogni oppositore: «La folla iniziò pian piano a temerlo, finché non esplose una rivolta nella quale fu brutalmente ucciso – le parole di Barbero, arricchite con dovizia di particolari – fu, insomma, un dittatore straordinario che finì male come altri dittatori futuri che, come lui, parlavano alle folle da un balcone».
«Non molti anni dopo i pontefici rientrarono da Avignone e misero fine all’esperienza comunale di Roma – ha concluso lo storico – ebbe avvio la più nota epoca rinascimentale, ma il popolo medioevale perse quell’impeto, quell’afflato che l’aveva spinto a partecipare alle lotte in prima persona, diventando un “popolino” ubbidiente a papi e preti». Su queste parole Barbero ha terminato il suo coinvolgente racconto, lasciando il palco del Verdi fra i prolungati e ripetuti applausi degli oltre seicento spettatori in sala.
Foto Sergio Marini
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