L'intervista
Reportage da Chemnitz - «Abbiamo creato una visione dal basso». Così la Capitale europea della cultura ha coinvolto i cittadini
Intervista con il responsabile del 'capacity building' per il progetto tedesco gemello di Gorizia e Nova Gorica. «La gente al mercato sorride, questo è un risultato tangibile».
«Kulturmacher», una sorta di «fabbricante di cultura»: così potrebbe definirsi Pascal Anselmi, giovane manager culturale al timone dei progetti culturali centrali di Chemnitz 2025. In qualità di “Project Manager Capacity Building” per la GmbH, la società che coordina la Capitale europea della cultura 2025, Anselmi è responsabile della cosiddetta European Workshop for Culture and Democracy, la piattaforma che intende dare voce e strumenti a cittadini, comunità, associazioni e “maker” culturali.
Anselmi ha studiato comunicazione mediatica e germanistica alla TU Chemnitz, con un’esperienza di formazione anche presso l’Åbo Akademi in Finlandia. Nel corso degli anni ha lavorato come giornalista freelance, collaborando con il mondo della radio e dei podcast (tra cui il podcast di ricerca dell’università, TUCscicast), e si è impegnato per promuovere le arti sceniche in Sassonia, contribuendo all’attività di associazioni di teatro indipendente.
Per il 2025, sotto la sua supervisione, l’European Workshop ha trasformato idee “dal basso” in eventi culturali concreti: festival di quartiere, iniziative sociali, partecipazione civica, rigenerazione di spazi urbani — con l’obiettivo di far emergere il potenziale umano e sociale di una città che vuole scrollarsi di dosso vecchi stereotipi. Anselmi non è solo “organizzatore”: è facilitatore di esperienze collettive, interlocutore per cittadini e istituzioni, ponte tra memoria storica, presente e futuro di Chemnitz.
«I volontari sono stati circa 1400 – spiega Anselmi – gestiti grazie a un’apposita piattaforma che ci consentiva di coprire tutti i numerosissimi eventi nei quali era necessaria la presenza di qualcuno. Spesso c’erano anche più persone rispetto a quelle necessarie ma, si sa, tra malattie e impegni improvvisi è sempre meglio avere qualche ‘riserva’», scherza. All’interno del Team progettuale c’erano tra le 8 e le 12 persone. Una squadra che ha consentito di «chiedere anche ulteriori fondi per i progetti che inizialmente non erano stati finanziati ma che meritavano una chance», precisa.
Il metodo che la squadra di Chemnitz ha scelto per poter dare criteri e giudizi e valutare le proposte che giungevano si può riassumere nelle cosiddette “5C”: la prima era per Europa, ovvero la promozione della cooperazione a livello europeo, la seconda per vedere, utilizzando l’assonanza tra l’iniziale di Chemnitz, la lettera C, con il verbo inglese vedere, “see”, quindi vedere il ‘creatore’ in se stessi, creando esperienze di efficacia singola riuscendo ad attrarre nuovi tipi di pubblico. Un’altra C, come spiega lo stesso Anselmi, era dedicata al ‘vedere’ il costruttore negli altri, scoprendo ‘il potenziale della creatività dei collaboratori con partner inaspettati che possano aiutare a un progresso migliore assieme’ mentre la quarta chiedeva di ‘vedere lo spazio per i creatori’, dunque ‘creare nuovi spazi e renderli accessibili per idee creative, progetti e collaborazioni’. La quinta C, infine, chiedeva proprio, come il motto dell’intera capitale europea della cultura 2025, di ‘vedere l’invisibile’, ‘C the Unseen’, quindi ‘esplorare l’ignoto, quello visto di fretta e nascosto e portarlo alla luce’.
In una Capitale Europea della Cultura che ha saputo inglobare nelle progettualità anche «i gruppi di giovani e di anziani all’interno dei volontari così come i gruppi di migranti in città», come racconta Anselmi, «ciò che di fondamentale rimarrà è il know-how, un modo di lavorare assieme e di cooperare. D’altronde, tutto questo processo ha creato una finestra di comunicazione ad alto livello sia comunitario che locale».
Pascal, allora, racconta di una mostra che si è svolta durante l’esposizione dedicata al progetto #3000garage, quando oggetti di utilizzo quotidiano, usciti proprio da quei luoghi costruiti inizialmente per le proprie automobili, sono stati raccolti in una mostra: ecco che «non vi era nulla di spettacolare ma solo cose normali che tutti avevamo a casa, finché è accaduto qualcosa di unico. Le persone, lì di fronte, hanno iniziato a parlare e a raccontarsi ricordi, aneddoti e memorie. Ecco la grandezza di questo progetto». E Pascal era lì, anche lui a raccontare del padre e ad ascoltare altri uomini della stessa età del suo genitore. «Abbiamo creato una visione non dall’alto ma dal basso e in tanti dall’ex Ovest Germania sono venuti nell’Est e hanno visto e conosciuto un altro mondo eliminando magari qualche preconcetto o pregiudizio».
Sì, perché tra le due Germanie ancora qualche differenza, e parlare di ‘qualche’ può essere un eufemismo, c’è: «Tra i locali, nell’Est, c’è ancora un retaggio degli anni Novanta quando le grandi fabbriche statali hanno iniziato a chiudere e i ‘padroni’ erano tutti ‘dell’Ovest’. La Capitale ci ha aiutato anche a comprendere e digerire quel processo di cambiamento che non è stato affatto semplice»
Per il 2026? «Ci saranno progetti anche per il prossimo anno, chiaro», sorride Pascal. «Va detto che il 90% delle opere d’arte del Purple Path rimarranno al proprio posto nei prossimi anni così come le migliaia di alberi di mele piantati in questi mesi. Al momento dell’apertura è stato come un interruttore, la Capitale è partita ed è iniziato un processo unico e che non si può fermare. In questi mesi – conclude Anselmi – ho visto le persone al mercato felici. E questo è il risultato più concreto. Il 29 abbiamo chiuso una fase ma le porte rimangono aperte».
Nella foto di Aurora Cauter: Pascal Anselmi, a destra, intervistato da Ivan Bianchi a Chemnitz.
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