Il rapporto tra città e cambiamento climatico a èStoria secondo Wilson e Mercalli: «Serve biodiversità»

Il rapporto tra città e cambiamento climatico a èStoria secondo Wilson e Mercalli: «Serve biodiversità»

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Il rapporto tra città e cambiamento climatico a èStoria secondo Wilson e Mercalli: «Serve biodiversità»

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 30 Mag 2025
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Le riflessioni dei due autori al centro del panel stamattina al Teatro Verdi. Fra le 'soluzioni' proposte la preservazione delle erbe spontanee e del verde selvatico al prato ordinato.

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Più viene disprezzato e rinnegato, più è resiliente e offre strumenti per vivere meglio in città. È il verde delle aree incolte e dei giardini in cui si lasciano crescere erbe spontanee, tanto preziose per la natura e la stessa vita. Le riflessioni di Ben Wilson e Luca Mercalli - moderate dal giornalista Riccardo Liguori - si sono svolte questa mattina al Teatro Verdi nell’ambito di èStoria, approfondendo il rapporto fra città e cambiamenti climatici già ripresi in “Breve storia del clima in Italia” scritto da Mercalli e “Giungla urbana” da Wilson. Piante ruderali anche definite “pioniere resilienti”, che lo storiografo e ricercatore di Cambridge considera indispensabile supporto alla biodiversità. «Ogni giorno si sviluppano nuove aree urbane delle dimensioni di Manhattan, eppure ritroviamo maggior biodiversità in città che nella campagna sottoposta ad attività agricola. Nelle aree urbane la natura cresce spontanea e pura e offre maggior polline alle api».

Non solo orti e giardini, ma anche cantieri in abbandono o spazi incolti, autentici «corridoi verdi» ricchi di organismi. Ne sono un esempio i ragni rinvenuti a Berlino, provenienti da una grotta abbandonata in Francia, o alcune piante che nella capitale tedesca sono giunte dall’Ucraina trasportate in forma di seme dai cavalli da traino. Uno studio dell’ambiente del passato che permette di risalire all’andamento climatico, prevedendo così l’evoluzione dei processi e i rischi impliciti. «Recuperando le cronache è possibile risalire a dati antecedenti all’invenzione del termometro e dell’anemometro – spiega Mercalli – perché la storia si fa soprattutto sui documenti. Attraverso le alluvioni del Tevere, ad esempio, riusciamo a risalire all’andamento climatico. Ma come ricostruire quello di oltre 2mila anni prima? Servendoci di muti testimoni microscopici dalla forma tipica per ogni pianta». Sono i pollini, che in terreni acidi come le torbiere possono resistere inalterati per lungo tempo.

A raccontarci la storia del clima sono infine gli alberi con i loro anelli. Nei pressi di Lavarone – vicino Trento – sorgeva l’“abete del principe”, che aveva raggiunto l’impressionante età di 250 anni. Abbattuto da una tempesta, venne tagliato in rondelle, sottili “fette” i cui anelli concentrici narrano il clima del passato. «Se c’è una primavera fredda o secca – precisa Mercalli - l’anello sarà piccolo; viceversa, se è un anno piovoso potrà essere più grande».

A occuparsene sono i dendroclimatologi, che misurano la densità del legno in connessione ai periodi climatici. A questi sistemi vanno a sommarsi i carotaggi sui ghiacci, che permettono ai ricercatori di risalire a milioni di anni indietro nella storia, e l’analisi dei sedimenti oceanici. Metodi che consentono di ricostruire il clima terrestre e comprendere i meccanismi in grado di frenare i cambiamenti in atto.

«Le città – rimarca - sono sempre state influenzate dal clima. In Italia, ad esempio, nell’ultimo millennio l’Arno ha portato a 56 alluvioni». Con l’introduzione della macchina a vapore e la combustione del carbone dell’Ottocento ha inizio il consumo di grosse quantità di energia, in conseguenza del quale si verifica il “feedback positivo”, cioè un’amplificazione dei cambiamenti climatici in atto. Di qui la vulnerabilità delle città e i fenomeni improvvisi, come l’alluvione di Valencia del 29 ottobre scorso. «Un tempo le città crescevano in armonia con la natura – interviene Wilson – ma erano circondate da foreste per via del legno indispensabile.

Con la Rivoluzione industriale la natura diviene nemica. Mentre città come Los Angeles fino alla Seconda guerra mondiale pullulavano di orti e fattorie. Le metropoli sono ricche in nutrienti, lo stesso sterco di cavallo era utilizzato come prezioso fertilizzante». Grossi centri urbani come New York oggi stanno riscoprendo l’utilità di aree paludose. A Copenaghen si stanno naturalizzando i flussi dei fiumi, mentre a Singapore si ripristinano le foreste recuperando l’armonia fra civiltà e natura. «Per difenderci dai cambiamenti climatici è necessario garantire biodiversità – ribadisce – creando giardini pensili o aree in cui le api possano trovare polline».

Ma i mutamenti climatici diventano preda di fake news o di un uso distorto dell’informazione, fornita senza approfondire i documenti storici o soltanto per nascondere verità scomode. «Oggi nessuno più approfondisce le fonti. Ci si limita a sostenere che Annibale è passato nella Valle di Susa perché faceva caldo, ma Tito Livio e Polibio riportano che soldati ed elefanti scivolavano sulla neve. L’umanità è stata tormentata dal freddo, in passato, soprattutto a causa delle grandi eruzioni. Si ritiene che l’Impero Romano sia collassato in conseguenza del clima, sfavorevole alla produzione di cereali, vero combustibile per i Romani».

Oltre alle esplosioni vulcaniche, fra gli agenti che influiscono sul clima abbassandone la temperatura si annovera anche l’indebolimento dell’attività solare e il mutamento delle correnti oceaniche. Mentre l’incremento della temperatura pertiene esclusivamente all’anidride carbonica prodotta. «L’aumento di un grado e mezzo è causato unicamente dalla liberazione di CO2 fossile – evidenzia - che amplifica l’effetto serra del pianeta». In media un italiano produce sei tonnellate e mezzo di biossido di carbonio all’anno, contro le quindici emesse da un americano - a causa di uno stile di vita con un maggior consumo energetico – e appena 200 chili dei Paesi africani. Valori che «è necessario equilibrare – auspica – per proiettarsi tutti insieme verso le emissioni zero entro metà secolo» come richiesto dagli Accordi di Parigi.

«Possiamo intervenire con piccole cose – suggerisce Wilson – massimizzando la presenza di natura in città e prendendoci cura dei paesaggi urbani, lasciandoli in uno stato maggiormente selvatico e con poco prato all’inglese». Una strategia che non sia attenta all’estetica, quanto piuttosto alla biodiversità delle erbe spontanee, ambiente in cui api e altri organismi possano coesistere. Perché alla vita dei viventi è legato il nostro destino, e solo una piena consapevolezza può lenire le ferite arrecate al pianeta.

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