Popolizio firma la regia dei 'Ragazzi irresistibili', Orsini e Branciaroli dibattono su vita e teatro

Popolizio firma la regia dei 'Ragazzi irresistibili', Orsini e Branciaroli dibattono su vita e teatro

La pièce

Popolizio firma la regia dei 'Ragazzi irresistibili', Orsini e Branciaroli dibattono su vita e teatro

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 22 Feb 2024
Copertina per Popolizio firma la regia dei 'Ragazzi irresistibili', Orsini e Branciaroli dibattono su vita e teatro

Lo spettacolo al Verdi di Gorizia riflette anche sul senso del recitare e sul senso della vecchiaia.

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Se non fosse Neil Simon, sarebbe il pittore Edward Hopper, con i suoi personaggi che si stagliano in solitudini immense e spazi vuoti dissociati dal contesto. È andato in scena mercoledì sera presso il Teatro Verdi la pièce “I ragazzi irresistibili”, che ha per protagonisti gli intramontabili Umberto Orsini e Franco Branciaroli, con la regia di Massimo Popolizio. Uno spettacolo duro e commovente, profonda riflessione sulla vecchiaia e sulla morte che in cuore lascia sorriso e lacrime. «A Broadway fanno come con le torte – spiega Branciaroli - La stretta della vecchiaia e della morte la mettono in fondo, e sopra le bella crema. È più facile parlare subito di vecchiaia e di morte, ma molto più difficile nasconderla nella torta». Una sorta di beckettiano “Finale di partita” scritto da Simon nel 1972 e trasposta qualche anno dopo sullo schermo nel film di Herbert Ross, interpreti Walter Matthau e George Burns. «Questo testo è stato interpretato anche da Woody Allen e Peter Falk nel 1995, ma non ha funzionato – ancora Branciaroli – Perché Allen è un attore comico, mentre il testo piace quando gli attori sono del teatro drammatico. Con noi funziona perché siamo due attori del teatro duro». Niente microfono, al quale la nuova generazione di attori si è pigramente abituata, ma la sola «voce viva forzata», per la quale «bisogna prendere il fiato». Un esercizio faticoso che appartiene alla recitazione con la maiuscola, svolto «senza che l’attore se ne accorga».

Al Lewis e Willie Clark sono due vecchie stelle del vaudeville al tramonto della propria carriera, uniti in 43 anni dallo stesso sketch che strappa gli applausi alla platea. Dopo undici anni dal loro ultimo incontro, i vecchi dissapori riaffiorano in superficie, non appena si ritrovano nella stanza d’albergo in cui vive Clark. Sono due anziani “ragazzi irresistibili” che portano in scena le piccole miserie umane «a un passo dalla morte», rimarca Branciaroli. Un amaro gioco di teatro nel teatro, con cui Popolizio mostra quelle crepe interiori che ciascuno tenta faticosamente di nascondere. E se in “Aspettando Godot” Dio non arriverà mai, di fronte a questa commedia dal retrogusto di tragedia sappiamo con certezza che verrà la morte, a portarsi via asti e contrasti. Laddove il binomio Orsini – Branciaroli richiama alla memoria quello di Hamm e Clov di Beckett, nella misura in cui la vita affiora in una luce flebile, con un mondo che può andare serenamente avanti anche senza loro due.

La scena si apre nella stanza di Clark, dove la tv accesa illumina una squallida stanza che non ha nulla della decantata “suite”. «Torneremo dopo un breve messaggio pubblicitario», recita la voce rassicurante del televisore. «Non ti preoccupare, cara, che non vado da nessuna parte, io», risponde Clark. Un uomo solo, incapace di tornare a recitare e accudito da un nipote (Flavio Francucci) che appartiene a quel domani ormai troppo distante per essere raggiunto. L’astio che cova è quello di tutti i vecchi che stanno per andarsene: «Ma andate tutti all’inferno!», dice quando il televisore non funziona più e cerca di ripararlo chiamando il tecnico al telefono. Per Clark – e per gli anziani soli – la tv è una sorta di finestra sul mondo; così il guasto ne amplifica l’alienazione e la solitudine. La mente stessa di Willie è “oscurata”, incapace di ricordare il nome delle patatine per lo spot pubblicitario. Finché si presenta la succulenta occasione offerta dalla Cbs, che offre 10mila dollari a coppia per partecipare allo spettacolo sulla storia della comicità “dall’Antica Grecia alle star di oggi”. Il terrore di rivedere il vecchio collega Al Lewis precipita Clark nell’insofferenza, per poi cedere il passo a un capriccioso infantilismo. Non c’è più domani, perché del domani rimane un vacuo presente soppiantato da rimorsi e rancori.

Tante risate per il pubblico, che con la comparsa di Orsini raggiungono il vivo. Al Lewis è un arzillo vecchietto compito e molto in là con gli anni, che agisce con ingenuità e umiltà, dando spazio a equivoci e situazioni esilaranti fin dal suo incedere. «Viene spesso, a New York?», domanda il nipote. «Oggi è la prima volta», risponde l’altro. «E come l’ha trovata?», chiede di rimando. «Guidava mia figlia!». Risate catartiche e allegria anche per i battibecchi tra i due, per poi pian piano stemperarsi in malinconia. Dal «Tu dici avanti sì o no?» al «Si accomodi, si accomodi» a chiudere il primo atto, lo spettacolo regala brividi e spinge a riflettere sulla condizione umana.

Un’interpretazione magistrale, quella di Orsini e Branciaroli, che al culmine della propria carriera sono in procinto di congedarsi non senza aver dimostrato il ruggito del proprio spessore. Finale toccante, quando Willie ammette all’amico tutta la propria fragilità. «Ho paura a star solo», mentre Al gli legge il giornale per distrarlo. «A Broadway hanno chiuso tre teatri, negli ultimi sei mesi», con l’altro che commenta «Quando ero giovane incontrai un vecchio attore che mi disse “Dove c’è talento non può esserci vecchiaia”». Un’interrogazione, infine, sulla condizione attuale del teatro e sul senso del recitare. Quel magico mondo che non potrà mai svanire né trascolorare, finché saremo noi stessi in grado di accoglierlo e immaginarlo dentro. 

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