Per i soldati dimenticati, storie sepolte di uomini nella Grande Guerra

Per i soldati dimenticati, storie sepolte di uomini nella Grande Guerra

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Per i soldati dimenticati, storie sepolte di uomini nella Grande Guerra

Di Ferruccio Tassin • Pubblicato il 09 Gen 2022
Copertina per Per i soldati dimenticati, storie sepolte di uomini nella Grande Guerra

Ferruccio Tassin ripercorre le storie di chi visse sulla propria pelle il terribile conflitto.

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Da ragazzo, ho parlato con alcuni ex combattenti della Grande guerra; i più di parte austro-ungarica, e con qualcuno dall’altra parte. Quando morì mio nonno paterno (1963), ero troppo giovane per avere una visione critica, e poi lui non scuciva quasi nulla: mostrava con orgoglio un grande tatuaggio sul suo braccio poderoso, con gli stemmi dell’Austria-Ungheria.

Si era lasciato sfuggire un “Se vevin un treno di verzis, lavin fin tramai a Roma!”. Con una sua cugina di Visco, studentessa dalle Orsoline a Gorizia, alla guerra profuga a Lubiana, rivendicava, con orgoglio, la difesa di Gorizia dagli Italiani.

Un nostro professore di storia, il rudese don Onofrio Burgnich, alle medie, ci aveva fatto capire che per noi, gente ex AU e di confine, c’era un’altra storia. Mi pareva di percepire un sentimento di fedeltà sia dei nostri che degli Italiani, dei quali avevo sfiorato un paio: uno che aveva fermato il Re Vittorio Emanuele e l’altro fedele al giuramento fino alla morte. Qui si parla di numeri piccoli, di personaggi “piccoli” (nel senso più nobile della parola), ma si affrontano temi grandi: patria, fedeltà, appartenenza…

Il reducismo (termine poco bello, ma efficace) si faceva sentire nei paesi ed era la spia di una passata appartenenza. Il servizio militare era uno spartiacque, onorato e temuto già prima della guerra. Qua e là, c’erano associazioni, per esempio, di quelli che avevano occupato la Bosnia nel 1908. Però c’era anche il timore, che si coglie negli ingenui versi del romanese Giovanni Zoff (1890 – 1918), già per il servizio militare prima della guerra:

Le abastanze pene amare
Sot dei altris dovè sta!
Ma son stas prime di noaltris
E par chist non mai tramà…
[Loro non tremano neanche davanti al fuoco, e poi…]
In chist cas no sove nuie
nancia oponisi no val
In comples le mior soldaz
come muars o in (Ospedal).

Con l’associazione “Zenobi” di Trieste e il prof. Roberto Todero, siamo andati in Galizia ad onorarli, senza nostalgie di piume o di arciduchi. Guardando al futuro, per stanare un elementare senso di giustizia, che, dal linguaggio dell’Italia “ufficiale” ancora non è venuto. Però, ci sono le piccole “vendette” della storia. Nella medaglia commemorativa regionale della grande guerra, per l’angelo che regge il soldato morente, fu modella, dello scultore Ximenes, Caterina Camuffo, nipote di don Giuseppe Camuffo, deportato dagli Italiani!

Nei cimiteri della Galizia, trovammo il tricolore in piccoli nastri, rimasti, forse, da corone di fiori e fronde: era quello ungherese degli Amici dell’Isonzo; d’italiano, niente. Solo una delegazione ufficiale del Trentino ci era stata. Nel Sudtirolo di Bolzano, ogni cimitero ha monumenti e lapidi; i più, con nomi e luoghi. Piccole storie che legano anime a viventi.

Avvenimenti come quelli ricordati a Villesse con testimonianze di pietra e libri hanno tradotto ciò che, in diversi campi, avevano operato Camillo Medeot, Pre Tite Falzari, mons. Silvano Piani, Renato Jacumin, Celso Macor, e pochissimi altri, studiando, accomunando i popoli nella cristiana pietà, donando dignità letteraria e poetica alla storia. Filo conduttore la giustizia: che nessuno fosse escluso, in nome di vittorie, che sulla terra non esistono, se non “per illusione sacrilega” (Giuseppe Ungaretti).

Da ragazzo, ho sfiorato questa storia sepolta. Il già accennato nonno materno, Toni, che dalla Galizia era tornato e anche dal Piave. Il prozio Celeste internato in Sardegna; un mio maestro, Giordano Pazzut, musicista di rango e vicepresidente del “Giovane Friuli”; il decano mons. Angelo Trevisan, sensibile agli internati jugoslavi della II guerra, perché era stato a Landegg e Pottendorf con quelli della I; la maestra Fausta - italianissima - figlia del poeta friulano Luis Merlo, obiettiva cronista di profuganza, e il professore di storia mons. Onofrio Burgnich, che a noi studenti, come si è detto, alzò il velo di un voluto oblio.

Da noi, ma certamente anche in altre parti d’Italia, c’è quel senso di pietas per chi è caduto in guerra, che travalica perfino giudizi critici di storia e di sentire politico. Abbiamo parlato più volte, qui, di come la grande storia abbia avuto incontri con la storia “locale” della "gente comune”. Quando scoppia la guerra, per l’insano imperialismo austroungarico, l’entusiasmo esplode a Gorizia, nei paesi… I giovani di Lucinico sono accompagnati alla stazione dalla banda; orgoglio alle stelle.

Centro di preghiera è Barbana; il clero avverte che i decani vi si rechino a chiedere a Maria l’incolumità dei figli. Il 3 agosto, 70 richiamati di Strassoldo, prima di partire, vanno a messa all’altare della Madonna e cantano l’inno imperiale. Ancora a Barbana, il 18 agosto del ’14, si prega per “più bella e completa vittoria”. Festa patriottica ad Aquileia; la giornata si conclude con canti mariani “dolcemente soffocando nella fede e nella fiducia alla Madonna i sospiri silenziosi di tante madri e di tante spose…”.

Con “approvazione ecclesiastica”, sul giornale cattolico, “Preghiera durante la guerra”; dopo tante belle e spirituali parole, si implora Dio con un “benedici le armi…” che cozza con l’uomo che non nasce uccidente. Di nuovo a Barbana: si supplica la Vergine, per incolumità e ritorno, e per la vittoria alle “armi austriache impegnate in giustissima guerra”. Intanto, si danno istruzioni sulla posta ai soldati e ai prigionieri. Per i feriti, si riporta il riscontro positivo di Lucinico, dove “Luigi Vidoz … ha consegnato 2 l. di latte e una corona” e “certa Giuseppina Zorsck, Via Caserma del vino e paste”.

L’11 settembre, a Villesse, decine di persone offrono generi e soldi per la Croce Rossa; il risultato di 121 corone dalla questua, lascia intravedere anche una situazione economica da non considerare con trionfalismo, nonostante le importanti realizzazioni sociali già conseguite. Ancora a Barbana, “strappando lagrime a tutti i fedeli” il vicario di S. Vito al Torre Giovanni Marangon spiega il pellegrinaggio per “ottenere la vittoria sopra i nemici del Trono e della Patria Nostra”. Sarà internato al volo dagli Italiani il 29 maggio del ’15!

Il 4 ottobre “L’Eco del Litorale” racconta che a Lucinico nove “brave e oneste ragazze del luogo” vanno di casa in casa a raccogliere offerte. Il 10 ottobre, cronaca dei funerali imponenti dell’eroe lucinichese Leopoldo Bressan, 28 anni. Folla, folla; tanti soldati, e gente di potere, fra cui Faidutti, capitano provinciale; salve di fucileria; Bressan, morto di menengite a Gorizia, ma aveva cominciato a morire in Galizia.

Lo stesso giornale, nella cronaca provinciale da Cormons invita a pregare pei morti e non tace la situazione drammatica, tanto che desta meraviglia il non intervento della censura, in una stampa, addomesticata. Titolo di una notizia breve: Un fiore sulle tombe dei nostri prodi”. Vale la pena di citare il testo, perché rivelatore al di là delle parole: “Poveri morti! In quest’anno triste di tempestosa burrasca, di una guerra formidabile siete in numero sterminato. Sul campo dell’onore molti hanno chiuso gli occhi al sonno della morte.

Poveri soldati: Teneri fiori appena sbocciati siete stati svelti dalla Parca fatale, inconsci delle lagrime del dolore avete dato la vostra balda giovinezza, il sangue vostro per la salvezza della patria. Vi svincolaste dagli affetti più santi, dai legami più dolci e correste dove più ferveva la pugna, dove più rombava il cannone e combatteste. E voi uomini maturi, padri e mariti, voi pure seguiste la bandiera del dovere e periste nella mischia, o poveri martiri. Oh, non piangete o madri, spose e sorelle il vostri cari perduti, essi vi attendono in cielo. E voi benedette, anime grandi, pregate per la pace futura e per una completa e giusta vittoria. Riposate in pace!”


Un lampo di realismo sul trasferimento dei soldati in Galizia, in treni affollati. Prima, festa; poi, la realtà di colline senza vegetazione. Racconta un Trentino, marcia con zaino in spalla: 100 chilometri in 32 ore, per strade “polverose, sabbiose”, a volte col fango alla caviglia; poi gli spari, la lotta.

Intanto, don Antonio Gratton, Chioprese, cooperatore a Lucinico, parte per Vienna a fare il “sacerdote assistente presso la Chiesa italiana”. Da parte austriaca ci fu grande attenzione ai profughi, anche se le cose non andavano sempre bene, difatti il Capitano provinciale on. mons. Luigi Faidutti intervenne costantemente. Siamo nel ’15, l’Italia dichiara guerra; il diario di un letterato triestino riporta il sospiro di una signora in tram: “No i doveva farne questa: jera già un anno che sofrivimo!”.

A Villesse succede il dramma: sei paesani cadono per il piombo dei “liberatori” e al dramma si aggiunge l’internamento di un corposo numero di persone (dopo Caporetto, ci sarà anche la profuganza di persone di sentimenti patriottici italiani). “L’Eco del Litorale”, il giornale cattolico, parla più frequentemente par la vicinanza a Gorizia”) Domenico Perco di Lucinico - altro che eroismi - scrive una lettera, da profugo, a Meravice il 5 luglio “…Ora è arrivata la farina di polenta, e si ricevono 90 centesimi a testa ogni giorno; e così tiriamo avanti colla speranza che termini la guerra”.

Nella Galizia polacca e ceca, i cimiteri di guerra (con migliaia di soldati, anche dei nostri) sono a decine: a Nowy Saczy (Polonia) uno monumentale, allestito prima che la guerra finisse; severo, con un’enorme statua, alberato, curato dai ragazzi del liceo cittadino. Ce n’è uno, piccolo piccolo, proprio in cima di un fangoso colle, che culmina in una raggelante e maestosa coreografia funebre. Quella cima, fa venire in mente la dissacrante canzone in triestino, dei nostri soldati: “Su e zo per la Galizia/ su e zo per i Carpazi / vestidi de pajazi / i ne farà marciar!”.

Per finire, due poesie in friulano sul giornale, sono capaci di svelare l’animus di poveri soldati: la prima “Il salut dal uerir furlan” è del ’14 ; è carica di speranza di vittoria; con baldanza annuncia “L’Imperator, il nestri pari, / difindarai cun grand valor;/ distruzarai chel aversari,/ che gi ha causat za tant dolor…”. La seconda, dolente (e siamo appena nel 1915!): “Pari dal zil …”; è l’immagine del soldato che si sente destinato a sicura morte, e si preoccupa, in maniera straziante, della famiglia.

Due sole strofe bastano a capire: “Pari dal zil, o pari del dolor!/ chei colps di tons mi strenzin strent el cur./ Bocis d’unfiar par dut gumitin fur/ la Muart a cà par tanc par tanc di lor …” E finisce: “Sizin e vuichin fasin l’unfiar/ li balis; ai, culì tal ciaf mi dul./ Pari dal zil, o pari, pari ciar/ A vo…i fis…i fis… lajù in… Friul…”. Così è andata per tanti delle nostre terre, e certo, anche per loro , ci sarà stata persona buona, capace, e carica di pietas , che avrà messo un segno, in Galizia!

Là è stato così; qui si è fatta fatica e, per citare un passo di Celso Macor, ci vorrebbe poco; di suo zio Meni, esprime, in un racconto, il desiderio: “Al me cuarp ‘l è piardût tal mâr di uès da Galizia. Duc’ àn dismenteât. Dôs bachetis di morâr, ti prei, nevôt, di pastanâ in crôs tun cianton dal nestri zimiteri. Che ‘l ricuart di me, Meni, class milvotzentenovantatré, sotdât di Franz Josef, ma senza patria, crevât a la tô etât t’una uera par nuja, al resti ‘ciamò un moment fra la mê int prin che dut al vegni inglutît dal scûr”.

Nella foto: un gruppo in visita al cimitero militare di Nowy Sącz e un cippo

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