Quel pegno da pagare per l'ignoranza, Pirandello letto dai fratelli Miraglia a Gorizia

Quel pegno da pagare per l'ignoranza, Pirandello letto dai fratelli Miraglia a Gorizia

la recensione

Quel pegno da pagare per l'ignoranza, Pirandello letto dai fratelli Miraglia a Gorizia

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 29 Feb 2024
Copertina per Quel pegno da pagare per l'ignoranza, Pirandello letto dai fratelli Miraglia a Gorizia

Questa mattina lo spettacolo dedicato alle scuole, sul palco fratelli Miraglia del Carro di Tespi. La commedia senza tempo che racconta l'oggi.

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Se Pirandello fosse vissuto ai giorni nostri, avrebbe certamente incentrato la pièce sui social. È andata in scena nella mattinata di giovedì presso il Kulturni dom di Gorizia - nell’ambito del teatro per le scuole - l’atto unico “La patente” (1917), commedia tratta dal racconto della celebre raccolta “Novelle per un anno”. Per la regia dei fratelli Miraglia del Carro di Tespi, facente parte dell’associazione “Teatro degli Incamminati” fondata da Giovanni Testori, l’opera ha portato in scena quelle che Pirandello definisce «le assurdità della vita, che non hanno bisogno di parer verosimili, perché son vere».

Un gruppo di teatranti composto per lo più da figli d’arte, dove i fratelli Miraglia rappresentano il cuore di quella «vecchissima compagnia» nata nell’Ottocento. «Con i nostri nonni e bisnonni si è sempre fatto questo lavoro – racconta Stefano Miraglia, che sul palcoscenico impersona il Giudice istruttore D’Andrea – Io e mio fratello, che impersonava Chiarchiaro, eravamo in tre. Nostro fratello maggiore è venuto a mancare, noi continuiamo la tradizione di famiglia. Partiamo da molto lontano, quando nel 1962 mio padre Dante fondò la compagnia, per rivolgersi soprattutto alle scuole in orario scolastico. Da allora non ci siamo mai fermati, e ogni stagione proponiamo in prevalenza classici. Questa è la nostra passione e il nostro amore».

Da Goldoni a Manzoni, Molière, Shakespeare, la compagnia attraversa ogni anno il Nord Italia per portare ai ragazzi i giganti del teatro. Protagonista della pièce presentata a Gorizia è Rosario Chiarchiaro (Umberto Miraglia), il quale mette in atto una grottesca quanto vana ribellione contro quella società che lo ha bollato come «iettatore». «Secondo Pirandello viviamo nell’ignoranza – ha spiegato Miraglia a spettacolo concluso, prestandosi a incontrare gli studenti – Noi stessi facciamo parte di una società simile a quella della “Patente”, una società preda e succube della maldicenza».

A essere vittime del pregiudizio oggi sono generalmente i più inermi, a causa di un fenomeno che si diffonde a macchia d’olio attraverso il canale dei social. Dal cyberbullismo di gruppo ai profili fake, sulla rete si celano “uno nessuno e centomila” leoni da tastiera. Uno spettacolo estremamente attuale, che allude silenziosamente a «vere e proprie tragedie» sempre più frequenti. «Persone prese di mira che decidono di farla finita» in quanto incapaci di reggere al peso del pettegolezzo, la cui la causa scatenante è sempre il pregiudizio, il medesimo indagato già Pirandello nel 1911.

«All’epoca di Pirandello non c’erano i social: c’era quella che condanna Chiarchiaro, rovinato per ignoranza». “Pagate”, urlerà ripetutamente il protagonista, alludendo alla «tassa dell’ignoranza». «Pirandello chiede che si paghi pegno per quest’ignoranza in cui intendiamo vivere», rimarca Miraglia. Una soluzione parziale, in quanto il malcapitato «non combatte, non si contrappone». Al contrario, intende avvalorare la propria irrimediabile condizione per ottenere un processo da quello che nell’Italia di allora era il “Regio tribunale”. Una condizione che dovrebbe materialmente arricchirlo sfruttando l’altrui ignoranza, mentre lo impoverisce nello spirito fino a condurlo alle lacrime.

Più che una vittoria, è un’amara sconfitta, poiché «non sarà mai più in grado di recuperare la propria dignità», commenta Miraglia. «Anche se dice “Sono ricco”, si accascerà sulla sedia dove nessuno ha mai voluto sedersi». Solo di fronte alla propria solitudine, Rosario si abbandona al pianto, mostrando finalmente «il vero protagonista». «Abbiamo voluto porre l’accento su ciò che resta della dignità dell’uomo e della sua famiglia», spiega ancora Miraglia. Quella sedia mai utilizzata durante l’azione - né dalla figlia (Irene Giuliano) né tantomeno dagli avvocati (Luca Di Martino e Davide De Mercato) – che verrà spostata un paio di volte per poi tornare al centro del palcoscenico al termine dell’atto, a chiudere il cerchio magico e segnare la fine della commedia.

Solo di fronte a stesso, il protagonista intravede ciò che gli resta: quella verità che continuamente sfugge celandosi fra le pieghe dell’esistenza. Calcando la mano tra “vita vera” e “apparente”, Pirandello descrive i due avvocati come creature grottesche frutto di una realtà sempre pronta a distorcere il mondo, piuttosto che considerarlo per quale è realmente. «I due hanno studiato, dovrebbero avere una certa apertura mentale, mentre sono i primi a dar credito ai pregiudizi basati sul niente», ammette Miraglia. Il giudice - che rappresenta lo stesso Pirandello e simboleggia la Ragione - porterà con sé in ufficio il proprio cardellino, del quale si ode il meraviglioso canto anche in sala.

Nel momento in cui il cardellino muore, Rosario sfrutterà la situazione dando inizio alla propria “professione da iettatore”. È qui che la razionalità vacilla. Nel momento in cui l’autore decide di chiudere, lasciando in sospeso il finale e cedendo allo spettatore la responsabilità di afferrare il senso di una commedia «dove non avverrà nulla». «Chiarchiaro cade dove sta la vita vera», chiosa Miraglia, perché solo di fronte alla nostra nuda essenza ritroviamo il volto che ci contraddistingue, senza finzioni né maschere. Laddove Shakespeare insegna come «Tutto il mondo è palcoscenico, e gli uomini e donne sono soltanto attori», Pirandello compie un passo avanti, consentendo ai protagonisti di mostrarsi per quali sono, in quelle miserie e fragilità nascoste dentro ciascuno.

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