Oleotto porta a Gorizia 'L’ultimo schiaffo' e l’altra faccia del Natale: «Meglio che vincere è perdere ma rialzarsi»

Oleotto porta a Gorizia 'L’ultimo schiaffo' e l’altra faccia del Natale: «Meglio che vincere è perdere ma rialzarsi»

L'INTERVISTA

Oleotto porta a Gorizia 'L’ultimo schiaffo' e l’altra faccia del Natale: «Meglio che vincere è perdere ma rialzarsi»

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 21 Dic 2025
Copertina per Oleotto porta a Gorizia 'L’ultimo schiaffo' e l’altra faccia del Natale: «Meglio che vincere è perdere ma rialzarsi»

Due le proiezioni che si terranno martedì 23 dicembre al Kinemax di Gorizia: alle 18 e alle 20.30. In sala saranno presenti anche Adalgisa Manfrida, Massimiliano Motta e altre soprese dal cast. Il film verrà distribuito nelle sale italiane a partire dall'8 gennaio.

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Già noto per le serie televisive “Volevo fare la rockstar”, “Se mi lasci ti sposo” o “Maschi veri”, il suo primo lungometraggio venne presentato alla 70esima Mostra del cinema di Venezia, quando partecipò con “Zoran, il mio nipote scemo” portando a casa il premio RaroVideo. Parliamo del regista goriziano Matteo Oleotto - classe 1977 - tornato al lungometraggio con “L’ultimo schiaffo”, in uscita nelle sale italiane l’8 gennaio. A presentarlo in anteprima al Kinemax di Gorizia martedì 23 dicembre alle 18 e alle 20.30 sarà il cast insieme al regista, che ha gentilmente concesso un’intervista alla nostra redazione.

C’è il Natale del presepe, quello delle luci e delle famiglie riunite. E poi c’è il Natale di Petra e Jure, che come molti italiani tirano a campare. Le festività riuniscono, ma esasperano anche il divario economico e accendono conflitti. È così che nasce l’idea de “L’ultimo schiaffo”? A cosa si deve, il titolo?
Sì, pensavo al backside del Natale: che è quel momento dell’anno in cui, se sei molto felice sei felicissimo, se sei molto solo rischi veramente di essere tanto solo. Quindi si può ispezionare cosa significhi passare il Natale senz’avere una struttura familiare alle spalle. Perché il Natale arriva per tutti, è incredibile: non è che poveri e disadattati lo saltano. E lo si sente: ci sono le luci, tutto quello che sta intorno. Questa è l’idea e il presupposto da cui sono partito. S’intitola “Ultimo schiaffo” perché è un film in cui gli schiaffi sono in qualche modo protagonisti, sia quelli metaforici che quelli fisici, quindi mi sembrava giusto questo titolato.

I due protagonisti rappresentano in un certo senso il frutto di una società alienante: raccontano una vita al margine come quella di Khaled e Wilkström che si agitano ne “L’altro volto della speranza” di Aki Kaurismaki. Si può dire che antieroi e perdenti suscitino più simpatia in quanto più vicini al pubblico rispetto ai tradizionali Superman e Wonder Woman?
Sicuramente sì. I vincenti mi hanno sempre un po’ annoiato, perché imparare a vincere è molto facile, non ci vuole niente, mentre a saper perdere ci s’impiega tutta la vita e bisogna cercare di rialzarsi. Preferisco i personaggi che cadono e si rialzano piuttosto che quelli che vanno verso il traguardo con le braccia alzate. Sono personaggi molto più ricchi, nella loro confusione anche molto più reali. Viviamo in un periodo storico in cui forse dobbiamo insegnare ai nostri figli a perdere e a rialzarsi piuttosto che a vincere, perché la situazione non è delle più rosee. A me interessava fare un’indagine su questo, mi attrae come poetica in generale parlare dei perdenti e dei poveri piuttosto che dei ricchi e dei vincenti.

Il film è girato anche nella nostra regione: Cave del Predil non poteva che essere la cornice ideale per questa storia di ultimi e dimenticati…
Sì, erano un po’ di anni che cercavo di ambientare qualcosa a Cave del Predil, e finora non ero mai riuscito. Finalmente dopo tanti sforzi ho realizzato questo sogno ambientandovi la storia giusta. Ritengo sia un luogo meraviglioso ricco di energie senza eguali al mondo, con queste case minerarie di gente che lavorava in miniera, ma con i tetti neri di montagna pieni di neve. Un posto dove fino a qualche decennio fa c’erano 3mila o 4mila persone che ci lavoravano, e adesso non arrivano neanche a 200. Si percepisce l’identificazione con un luogo in cui prima c’era tanta vita, il posto ideale per raccontare questa storia. Ne sono davvero felice, ce l’ho fatta.

È ambientato anche in Slovenia?
Ci abbiamo girato per qualche giorno, ma sulla zona di confine. Il grosso lo abbiamo filmato a Cave, ma anche a Malborghetto-Valbruna, una settimana a Gorizia, due giorni a Trieste e uno a Grado. A Gorizia abbiamo girato soprattutto scene di interni, mentre a Grado sul lungomare della Diga.

La favola triste di Petra e Jure pare rinviare al pensiero di Franco Basaglia, secondo cui non basta curare l’individuo se è il sistema stesso a produrre sofferenza. Una riflessione sulla condizione degli emarginati che era già presente nel tuo primo cortometraggio d’esordio, “Stanza 21”. Questo lavoro intende dunque essere un film di denuncia, in cui la società sia chiamata a prendersi carico delle fragilità dei singoli?
Sarebbe bello che fosse così, è una domanda molto interessante. Per me Basaglia è stato un punto di riferimento da sempre. Ho iniziato questo lavoro grazie al suo pensiero, che ritengo essere una delle vere “rockstar” del Novecento. Nel racconto c’è anche questo, per mostrare una collettività in cui non sono tutte rose e fiori come ci si immagina possa essere nei paesi, dove tutti si conoscono e si rispettano. Esistono comunità più severe in cui ciascuno pensa al proprio orto e ci si guarda in cagnesco. Anche questa è un’ispezione, quella nel “lato B” delle comunità montane dove di solito tutti si salutano amabilmente.

A salvarci dalla bestialità umana sono proprio gli animali: il cane Marlowe è una sorta di deus ex machina in grado di far riemergere i valori che spesso a Natale vengono paradossalmente smarriti. Qual è, quindi, il messaggio?
Mah, devo dirti la verità, Marlowe è un pretesto, l’anima pura che tutti vorrebbero intrappolare, ma forse è meglio resti libera. Chiunque provi a stringerlo e portarselo a casa finisce col perdere. Chi tenta di prenderlo non ha fortuna. Mi piaceva raccontare come quest’animale in qualche modo li unisse tutti insieme, ma fosse di pochi.

Ho visto che condividi sui social tutti i messaggi di animali smarriti.
È una cosa che mi appassiona sempre, un po’ perché ho un cane ed empatizzo molto con chi smarrisce gli animali. E poi, alcuni di questi messaggi mi fanno pensare, come accade nel film, nella vita e nel mio modo di raccontare. In quei cartelli di frequente si ritrova la tragedia e la commedia, perché i testi che vengono scritti sono bizzarri. Non riesco a provare solo un senso di pena, spesso mi strappano anche un sorriso. Così in questi tre anni ho cominciato a fotografarli, ho un piccolo archivio che sto via via pubblicando. Scatti che racchiudono il dramma di chi ha perso l’animale, ma anche la commedia di chi si esprime con determinati colori riguardo all’accaduto: una summa che mi rappresenta.

La tua collaborazione con Giuseppe Battiston prosegue dall’”era” di “Zoran, il mio nipote scemo”. Invece, come hai scelto Adalgisa Manfrida per il ruolo di Petra? Alle spalle aveva già “Io sono l’abisso”, una parte in “Noi anni luce” e “L’amica geniale”.
Abbiamo fatto un casting molto lungo di quasi cinque mesi. Ho visto circa 500 persone, il che mi ha aiutato a capire bene di che umanità il film avesse bisogno. E poi è venuto abbastanza naturalmente, nel senso che Adalgisa è arrivata fra gli ultimi. Ho capito che poteva essere lei perché aveva in sé quella forza, quello sguardo fortissimo, oltre a una capacità di avere grande ironia e leggerezza. È un’attrice strepitosa, e lo stesso vale per l’incontro con Massimiliano Motta, che affascina per la sua purezza e il suo modo di essere candido.

“Zoran, il mio nipote scemo” risale al 2013. In seguito, ti sei dedicato al cinema per la televisione e alle serie TV, riportando finalmente nelle sale questo lungometraggio, che debutterà l’8 gennaio. Con l’ultima finanziaria il governo ha annunciato per il 2026 tagli considerevoli ai fondi per il Cinema e l’Audiovisivo. Quale futuro si profila, all’orizzonte?
Nero. È abbastanza evidente, ormai, che il governo abbia compiuto scelte ben precise per colpire una parte del settore industriale del nostro Paese. Sicuramente c’erano problemi in merito alle leggi a favore del cinema, ma avremmo preferito che questo governo tentasse di risolverli come hanno sempre fatto in precedenza, magari sbagliando, ma cercando di migliorare piuttosto che tagliare. Il principio applicato è che, se una cosa non funziona, si taglia. Non funziona così, nella vita. In politica sì. Ci aspettavamo momenti bui, perché l’attività culturale legata al cinema è un volano legato all’economia, ogni euro investito al cinema porta parecchi euro nella retribuzione sul territorio, e questo i nostri politici fingono di non capirlo. Ci aspettavamo anni duri, in cui bisogna resistere restando attaccati alle proprie posizioni. Nella speranza che arrivi prima o poi qualche politico un po’ più lungimirante rispetto a questo tema, a proporre qualche arma in meno e qualche soldo in più per la cultura: affinché si possa lasciare un Paese migliore ai nostri figli.

Altri progetti per la televisione?
Al momento ho finito di girare “Maschi veri 2”, e anche questa seconda stagione andrà su Netflix. Adesso intendo prendermi un po’ di pausa e provare a scrivere un altro film: ho qualche idea che mi frulla per la testa; quindi, vorrei stare per qualche tempo lontano dalla televisione e portare avanti due o tre progetti che ho in mente.

Continuerai a girare in Friuli Venezia Giulia e Slovenia?
A meno che non sia una storia che mi porti fuori per evidenti motivi, direi di sì. È la terra che conosco, in cui riesco a scendere in profondità. La terra dove sono nato e ho avuto i primi brividi guardando delle immagini, quindi mi piace e mi stimola, c’è ancora tanto da raccontare.

Nell’anno della Capitale europea non può mancare una domanda su Go! 2025: come hai vissuto, da goriziano, questa collaborazione fra due Paesi, in cui il confine viene ormai percepito come l’atrio destro e sinistro dello stesso cuore?
Per me lo era già, non avevo bisogno di un anno di Capitale della cultura europea, per vivere questo territorio come unico. Ho visto cose molto belle, ma per me il vero anno della capitale della cultura deve cominciare dal primo gennaio del 2026, perché allora sì che avranno fatto un investimento culturale serio. Se dovesse morire tutto, sarebbe un vero peccato. Finora è stato relativamente facile, in quanto il territorio è stato riempito di denaro, speso più o meno bene; poi, ciascuno ha la sua opinione. Ma c’è stata tanta gente che è venuta in visita, con diverse cose interessanti da vedere. Il problema è tra un mese: che cosa succederà? La sfida comincia adesso. Saremo ancora in grado di essere una città attrattiva? Saremo ancora capaci di raccontare che siamo una città unica? Nasceranno progetti per unire le due città e farne una di 70mila abitanti? Mentre tutto il mondo erige muri, confini, filo spinato, noi saremmo il primo caso al mondo di due città e due Paesi che provano a unirsi, diventando una sorta di laboratorio a cielo aperto. C’è da lavorare, non basta un anno di Capitale della cultura europea. Ho percepito che c’è stato l’abbrivio, ora toccherà capire se la politica sarà in grado di continuare su questa strada. Perché il problema è dare continuità alle cose fatte. Staremo a vedere. 

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