DAL FESTIVAL
Nicola Gratteri e don Maurizio Patriciello a èStoria tra mafia e Terra dei Fuochi: «Lavorare coi ragazzi non è mai tempo perso»

Magistrato e parroco hanno raccontato le proprie esperienze al Verdi di Gorizia, «mettersi al servizio della comunità il proprio know-how».
Fortuna aveva appena sei anni quando è piombata di sotto. I capelli biondi come gli angeli dipinti, ma senza le ali si è schiantata a terra dopo un volo di almeno dieci metri. Si è svolto in un teatro Verdi con pochi posti ancora liberi – rafforzato dai controlli di sicurezza – l’incontro sulle “città della camorra”, in cui a dialogare era don Maurizio Patriciello di Caivano insieme al procuratore di Napoli Nicola Gratteri. «Sotto scorta da tanti anni – rimarca lo scrittore e conduttore radiofonico Stefano Mensurati – il magistrato di punta combatte dalla parte delle istituzioni, in una lotta a volte generata da una società civile che non reagisce abbastanza, spesso simile a una battaglia contro i mulini a vento».
Accanto a lui don Maurizio, assurto a simbolo del contrasto alla camorra in quanto attivo sul fronte caldo della Terra dei Fuochi, dove fiumi di droga si mescolano con le pallottole e la morte cammina fra i passanti. «Lui è di Caivano – spiega Mensurati – salita ai “disonori” della cronaca perché una bambina, Fortuna, è stata lanciata dall’ottavo piano per essersi ribellata alle molestie sessuali». Caivano è un comune che conta 36mila abitanti, «più di Gorizia», sottolinea il moderatore. «Chi abita lì non sente la presenza forte dello Stato e magari si gira dall’altra parte – prosegue – o abbassa la testa. Un modo di fare che deve essere sovvertito». E i due ospiti cercano ogni giorno di farlo, nonostante le minacce o gli attentati subiti.
«Ero caporeparto d’ospedale – racconta il sacerdote – poi un giorno diedi un passaggio a un frate francescano ed eccomi qua, lasciai il lavoro in ospedale». Una regione che reca ancora i segni del terremoto dell’Ottanta. Da quella terribile sera il malessere ha preso a impastarsi al cemento con forza maggiore, senza risparmiare nemmeno i bambini. «Il presidente della Regione ha detto “a Caivano lo Stato non c’è”», riporta il parroco. «Questo lo posso dire io che sono prete, non chi rappresenta lo Stato». Un comune divenuto una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa, ma anche del malaffare legato ai rifiuti, come già scritto da Saviano in “Gomorra”.
«Ho capito che il Signore, oltre a farmi confessare, mi chiamava a compiere un altro passo avanti. E così abbiamo cominciato con la Terra dei Fuochi. Le cui puzze entravano nella parrocchia, non si poteva respirare. Abbiamo cominciato con la forza della disperazione». Una scelta che gli è costata un attentato intimidatorio con una bomba carta, e quindi a vivere sotto scorta. «Nella vita – continua – non si può piacere a tutti. Io non ho scelto niente, ho scelto solo di annunciare il Vangelo. Che significa denunciare il male. Non uno generico, ma la camorra, e i clan che hanno un nome». Un “mestiere” che attrae i ragazzi, quello del mafioso, perché assicura denaro facile e conferisce uno status sociale “di rispetto”, al contrario dell’insegnante, in Italia sempre più visto come un perdente.
«Faccio questo lavoro dall’86 – interviene il magistrato – e sono stato in Calabria fino al 2023. Ora sono il felice procuratore di Napoli. Potevo scegliere di venire al Nord, ma ho pensato di poter fare qualcosa di concreto per la mia terra. Ho capito fin da subito che non era sufficiente fare bene il proprio lavoro, ma bisognava andare oltre lo schema del magistrato. Lo dico anche a voi che siete qui stasera: bisogna mettere al servizio della collettività il proprio know-how». Un uomo pragmatico, capace di parlare ai ragazzi delle scuole ragionando di denaro senza fare la morale. «Il mio è sempre stato un approccio non morale o etico. Bisogna parlare di soldi: quanto guadagna un corriere di cocaina e quanto un idraulico, cosa rischia il corriere e cosa l’altro. Oggi per i giovani contano i soldi, il vestito firmato. Ai miei tempi quando l’insegnante passava per strada gli facevano l’inchino. Mentre ora l’insegnante viene visto come uno sfigato, non ha appeal. Ce l’ha il cafone con l’auto grossa, modello dell’odierna società dei consumi».
E nell’appellarsi agli insegnanti ha ribadito loro di «stare attenti a chi invitate a scuola». «C’è chi va nelle scuole a parlare di mafia improvvisandosi e chiedendo soldi. È difficile, parlare ai ragazzi, ma non bisogna mai stancarsi, è necessario resistere. A volte restano colpiti. Oggi molti dei miei colleghi mi hanno incontrato nella scuola media. Non è mai tempo perso, parlare ai giovani. Per parlare alla gente devi essere autentico e raccontare il tuo vissuto. È lì che comincia un rapporto costruttivo e utile». Un dialogo che è necessario iniziare in famiglia, spesso assente, che abbandona bambini e adolescenti all’universo senza regole di social e influencer. «Ai ragazzi bisogna parlare di più – insiste – perché oggi sono figli di Internet, non dei genitori. E chi educa i genitori che vogliono essere amici dei figli? Quando tornano a casa con un voto basso, il giorno seguente padri e madri vanno a scuola per fare il processo all’insegnante. Mentre dovete lasciare che facciano il proprio lavoro senza interferire».
Schiacciati fra baby-gang e spaccio i ragazzi percepiscono le difficoltà del futuro cedendo alla strada più facile di guadagno o rifugiandosi nella droga. «La speranza – rileva don Maurizio – non deve morire mai. Quando abbiamo capito il nesso di causalità fra i rifiuti e la gente che moriva, ci siamo rivolti ai medici affinché collaborassero. Martina ha perso la vita ad Afragola. La persona pigra dice “È un ambiente degradato”, ma Giulia Cecchettin proveniva da un ambiente diverso, era quasi laureata. C’è un problema da affrontare. Il problema è che spesso parliamo ai ragazzi come la carta stampata, mentre dobbiamo coinvolgerli emotivamente». E nel ricordare il piccolo Giuseppe Di Matteo rapito nel 1993 e ucciso tre anni dopo a San Giuseppe Jato ha auspicato che le scuole d’Italia possano dedicargli un’aula o altro spazio. «Ha trascorso 779 giorni prigioniero. Quante volte avrà pianto, quante volte avrà avuto la febbre?». Solo con se stesso senza mai poter rivedere la luce del sole né riabbracciare i suoi cari, è stato finito senza pietà con una corda al collo. «Mentre lui era in quella prigione, noi dov’eravamo?», domanda retoricamente.
«Io sono un esperto di ‘ndrangheta – puntualizza il procuratore – e appena arrivato non capivo cosa fossero le “stese”». Si tratta di una strategia per conquistare la piazza di spaccio, in cui due ragazzi in moto sparano ad altezza d’uomo. «Per la ‘ndrangheta è impensabile – precisa – perché curano molto il rapporto con la collettività. “La mafia deve far paura, ma non terrorizzare, altrimenti il popolo ti abbandona”», cita riportando le parole di un boss. Mentre in Campania i giovani si appropriano di una piazza attraverso la violenza e la sparatoria. «La camorra è molto evoluta nel mondo dell’imprenditoria – chiarisce – diffusa al Nord, dal mondo del terziario alla ristorazione. Non in modo capillare come la ‘ndrangheta, ma è una presenza significativa in tutt’Europa, e si è sviluppata anche nel mondo del dark web».
Dalla Riforma Cartabia a oggi soltanto una norma ha davvero giovato alla giustizia, consentendo l’intercettazione degli hacker che estraggono bitcoin. Ma la rivoluzione concreta, secondo il magistrato, sarebbe quella di «rivedere il garantismo manicheo». «In Francia quando la polizia giudiziaria va in udienza non deve giustificare come ha messo il trojan o la microspia, mentre in Italia va spiegato». E in riferimento al Decreto Caivano del 2023 ha esplicitato come in quelle terre «qualcosa è cambiato. Dobbiamo avere l’onestà di manifestare le cose che non vanno, ma anche quelle che sono state fatte». Da Caivano alle “vele” di Scampia il passo è breve, misura poco più di una decina di chilometri. Un’architettura urbana simbolo del degrado, lo scorso anno al centro dell’attenzione mediatica per il crollo di un ballatoio. Una struttura attorno alla quale non c’è nulla, con corridoi stretti e bui che richiamano spacciatori e criminali. «La responsabile è la stessa architettura urbana – riflette Gratteri – perché più che i vicoli di Napoli ricorda il carcere».
Una gabbia in cui la luce del sole fatica a entrare, anche se la camorra resta pronta a colpire nei luoghi più impensabili, impegnata a contrastare la giustizia di uomini al servizio dello Stato. «Sono stanco di sentir parlare di eroi», conclude don Maurizio. «Se mettete un papavero rosso in un campo dorato, il papavero spicca. Se lo mettete in un campo di papaveri rossi, non è facile individuarlo. Io dico – si augura – che se tutti diventassimo papaveri rossi non sarebbe facile individuare Nicola Gratteri, né fargli del male».
Foto Facebook/Associazione culturale èStoria
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