Il personaggio
Luciano Furlan, l'ultimo cestaio di Fogliano
Classe 1929, Luciano ha imparato l'arte del vimine dal padre, discostandosi però da quella che era la scuola dei cestai. Creando vere e proprie opere d'arte.
La tradizione dei cestai, a Fogliano, ha resistito per un buon secolo e mezzo. Da quando, cioè, l’Impero d’Austria non aveva avviato una profonda scolarizzazione per permettere ai vari paesi di intraprendere attività che fossero utili al Territorio di per sé e portassero un po’ di introiti alle famiglie, diversi da quelli, spesso miseri, che giungevano dal lavoro manuale dei campi. Una scuola, attiva fino alla metà del secolo scorso, insegnava ai giovani a lavorare il vimine per produrre cesti e piccoli oggetti di uso domestico.
Pur non avendo partecipato direttamente a quella scuola, ultimo testimone di quell’antica tradizione foglianina è Luciano Furlan, classe 1929, che fino a qualche anno fa ha laboriosamente intrecciato anche la stecca di vimine più dura per creare oggetti di rara fattura. Lo abbiamo incontrato nella sua abitazione in quel borgo che, nella memoria collettiva di Fogliano, era chiamato “Le vilete”, un nomen omen.
A chiedergli se lui sia l’ultimo cestaio, lui, sagace, risponde “l’ultimo, non esistono più!”. Avvicinatosi all’arte in quanto il padre era anche cestaio, lui si discosta fin da subito dalle modalità “classiche”. “In paese lavoravano il vimine a decine. Quando ho cominciato io ho messo la mia passione, la mia arte”, spiega Luciano. “I lavori che si creavano spesso erano scadenti perché bisognava produrne in quantità per poter essere venduti e guadagnarci. Io, invece, il tempo l’ho usato per creare le mie fantasie. Sono quarant’anni che sono in pensione e spesso otto ore al giorno le mettevo. Bisogna essere continuativi nei propri lavori: non si può lasciare un lavoro a metà”.
La lavorazione del vimine richiede mano. “È difficile, e quando vennero i rappresentanti dell’Associazione culturale bisiaca a trovare me e mio papà videro la difficoltà. Nello stesso mazzo di vimine ci sono sei qualità differenti da trattare: c’è quello nervoso, c’è quello debole, quello ultra-nervoso e così. E ognuno deve essere trattato in modo diverso”.
Luciano ha sempre guardato alla qualità. “Anteponevo alla rendita il mio modo di lavorare”. E, esibendo uno degli ultimi cesti creati, ne esibisce con orgoglio la perfezione delle giunture. “Da qui si vede un lavoro in vimine fatto bene. Aprirlo e chiuderlo per migliaia di volte non lo rovinerà”. Fu proprio vedendo una di queste creazioni che l’Associazione culturale bisiaca, alla ricerca quasi utopica di ricreare la scuola, diede a Luciano il titolo, più che meritato, di Maestro. Anche se lui preferisce di gran lunga “l’ultimo cestaio di Fogliano”. Gli si addice.
Sue opere sono finite a Gradisca, a Monfalcone, a Parigi e Bruxelles: “son opere fatte bene, ma per farle bene bisogna macinare lavoro. Lì sta il discorso”.
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