DAL FESTIVAL
Una guerra infinita: «Più si protrae più diventa feroce». La sentenza di Lorenzo Cremonesi a èStoria

L’inviato di guerra in dialogo con Gad Lerner. Dall’attacco a Gaza alla guerra in Ucraina, il racconto all’Auditorium Fogar.
La guerra non conosce pietà, ma solo morte e distruzione. E ora che il suo scandalo continua a incendiare il Medioriente e il cuore dell’Europa, è più che mai necessario difendere le democrazie. «Ci ritroviamo in un clima di anteguerra – ha commentato Gad Lerner – è inutile negarcelo. La stiamo pensando come eventualità concreta». L’incontro si è svolto all’Auditorium Fogar nel pomeriggio di ieri, e ha visto dialogare il giornalista di Beirut con l’inviato Lorenzo Cremonesi intorno al saggio “Guerra infinita”, scritto da quest’ultimo ed edito da Solferino.
«L’inaudito è entrato nella nostra esperienza – prosegue – e potrebbe riguardare i nostri figli o i nipoti». A interrogare Cremonesi è stato proprio il giornalista israeliano, che a bruciapelo gli ha domandato se avesse mai usato un’arma. «Non sono un cacciatore, non ho il porto d’armi né ho mai pensato di averne una. Ma in un paio di occasioni ne ho sentito il bisogno», ha confessato l’autore. L’episodio al quale fa riferimento risale alla fase posteriore alla strage di Nassiriya del 2003 contro i militari italiani. «Ci fu un momento in cui diventammo oggetto di ricerca da parte di gruppi sunniti. Dagli arsenali di Saddam che venivano saccheggiati rubai una pistola calibro 760. Avevo realizzato che alcuni colleghi erano stati uccisi, erano gli anni in cui stava nascendo l’estremismo islamico. Poi sono giunto alla conclusione che conviene avere un’arma solo nel caso in cui tu la sappia usare perché se s’inceppa l’altro è più veloce e ti fa fuori. È meglio essere disarmati». L’altro periodo infuocato che segnò l’inviato fu il settembre del 2005, quando le colonie israeliane si ritirarono da Gaza e dalla Cisgiordania. Pochi giorni prima, in un torrido quindici agosto, Ariel Sharon andò in onda in diretta televisiva dichiarando che Israele non avrebbe potuto tenersi la Striscia.
«Sharon decise l’abbandono di Gaza – precisa Cremonesi - perché costava troppo difenderla. Venni rapito, ma divenni amico dei rapitori». Si trattava di un gruppo militante legato ad Al-Fatah, che serbava rancore contro Arafat per aver ratificato gli accordi di Oslo e concesso una pensione ai palestinesi della diaspora. «Il popolo dell’interno si sentiva in diritto di avere quella pensione, perché aveva preso parte all’intifada». Il rapimento avviene presso il campo di Nuseirat, lo scorso anno oggetto di bombardamenti e dove oggi resta poco o niente. «Una sera mi liberano, e diventiamo amici. Dovevano portarmi da Abu Mazen, loro armati di kalashnikov e io per ultimo, che mi sono ritrovato fra le braccia le armi di tutti per aiutarli. Mi sono messo a ridere».
Ma Cremonesi la vita l’ha rischiata anche sotto il fuoco degli israeliani, a suggerire «il ginepraio» di una terra piena di contraddizioni. «Siamo disabituati all’idea della guerra – riflette Lerner - la vediamo nei film e ora c’indigniamo quando vediamo Gaza perché ci terrorizza, non sappiamo come comportarci». «Non ero affascinato dai conflitti – interviene Cremonesi – ma lo spettro della seconda guerra mondiale aleggiava nella nostra casa». E citando il saggio “War” della storica Margaret MacMillan rimarca come la storia dell’uomo sia «puntellata di guerre». Una sorta di costellazione che accompagna l’umanità, quasi che dal nulla non possa che affiorare altro nulla.
«La guerra ci caratterizza come esseri viventi e sarà sempre con noi. Più si protrae, più diventa feroce», ammette il giornalista di Milano. E ogni conflitto porta con sé l’illusione che possa concludersi in breve tempo, la vana speranza che tutto si risolva senza vittime. «Finirà prima di Natale», si mormorava nel 1914, con un sinistro richiamo all’attualità di Putin e all’assurda convinzione di vincere in pochi giorni. «La nostra casa venne bombardata nel 1944 – ricorda il giornalista – e in quella notte mio nonno perse l’azienda e la casa di via Sabotino; per questo motivo si suicidò. L’altro nonno materno era stato segretario durante la fase socialista di Mussolini, per poi perdere il lavoro da giornalista in quanto antifascista».
Dopo una vita vissuta con la nonna paterna ebrea, a vent’anni Cremonesi inforca la bicicletta per andare da Gerusalemme al Canale di Suez, fino al mestiere di corrispondente nelle aree calde fra cui la stessa Ucraina e il Medioriente, dove ancora si reca. «Oggi in tutto il Donbass non c’è una casa in piedi – ribadisce – e sono solo gli anziani a restare. Hanno gli animali, la terra. A 80 anni hanno lavorato una vita, preferiscono morire a casa propria». Non mancano nel suo saggio episodi di umanità da parte dei civili, come durante un attacco a Jabalia, quando una signora poverissima e con cinque o sei figli gli apre e imbandisce la tavola s’un lenzuolo, con tanto di hummus, tabulè e involtini di vite. Perché all’ospite «si offre tutto ciò che si possiede». Un processo d’integrazione portato avanti da Trump e Netanyahu attraverso i Patti di Abramo, oggi naufragati. «I palestinesi al momento si ritrovano senza classe dirigente – sottolinea – e l’unico che avrebbe potuto garantire la pace era Sinwar, capo di Hamas. Perché la pace si fa con i nemici». A Gaza, nel frattempo, i bambini accoccolati sulle macerie innanzi alla madre morta avvolta nel lenzuolo, sono i proseliti che Hamas raccoglierà fra le sue fila domani.
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