‘Grande guerra’: un viaggio sui luoghi al fronte dell’Est

‘Grande guerra’: un viaggio sui luoghi al fronte dell’Est

Il racconto

‘Grande guerra’: un viaggio sui luoghi al fronte dell’Est

Di Ferruccio Tassin • Pubblicato il 06 Giu 2023
Copertina per ‘Grande guerra’: un viaggio sui luoghi al fronte dell’Est

Ferruccio Tassin ripercorre alcune tappe di un'uscita di quasi dieci anni fa sui luoghi dove si combatté anche partendo dal Goriziano.

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Abitando in terre che furono di confine (per cinque secoli), mi è giunta l’opportunità di vedere proprio luoghi “lontani”, anche quelli di confine, verso la Russia: facevano parte della Duplice Monarchia austro-ungarica, muta testimonianza, di grandi macelli…tra uomini!

Nell’ex Contea di Gorizia, quella cultura mitteleuropea, data per morta da un nazionalismo ottuso (come sono ottusi tutti i paradossi di un’idea incapace di ascoltare e confrontarsi con le altre), stava riemergendo più di cinquanta anni fa. Non era nostalgia di granduchi, piume, divise, balli a corte; ma tentativo di riagganciarsi a un sentire, grande e plurale: nei fatti, esperimento di Europa.

Battistrada fu Camillo Medeot, con le sue opere che aprirono un nuovo filone nella storiografia; poi, i progressi furono grandi, ora messi in pericolo da mentalità elemosiniere di più di qualche ente pubblico, privilegiando un effimero, in linea con lo spettacolare - dominante - che produce come lo spremere nebbia. Allora, verso la Galizia: nel 2014, come migliaia di uomini e giovani del Litorale (Contea di Gorizia e Gradisca, Città immediata di Trieste, Margraviato d’Istria) 100 anni fa, partiti dalla Südbahnhof, Stazione centrale di Trieste.

Di recente, quivi, una stele lo ricorda, grazie alla Associazione Zenobi, di Trieste, promotrice del viaggio in Galizia (29 settembre 5 ottobre). Quei soldati ci andavano per combattere, morire; noi, per rispetto ai dimenticati dalla nuova patria, l’Italia. Altri paesi si sono occupati dei loro, così come dei nostri, talché, un tardivo interessamento di chi non ne ha voluto sapere, sarebbe sommare irriverenza a irriverenza. La corriera era una comunità: collante lo spirito del viaggio, non tanto gli interessi dei singoli.

Chi aveva il nonno morto sui Carpazi; chi ne aveva sentito i racconti; chi ci andava per verifiche storiche; lo spirito comune. Un mediatore culturale di eccellenza della storia con la realtà, il prof. Roberto Todèro: spiegazioni brevi e pregnanti; video penetranti; ha fatto capire ambiente, epoche, accadimenti. Sì, aleggiava quel tanto di nostalgia per un passato che accomunava tanti popoli, ancorché, aldilà del mito, non privi di tensioni e di contrasti anche violenti. Là si è potuto verificare, che, ancora, una persona delle nostre terre, non si sente estranea, nonostante le difficoltà delle lingue (la Galizia è spartita in diversi stati). Puntate a città storiche, sempre fatte di realtà plurali: confronti, anche aspri fra etnie, lingue diverse, ma pure così ricche di contributi alla storia e al progresso, dall’architettura, alla musica… fino alla cucina.

Cimiteri solitari in cima ad alture sui Carpazi (allora erbosi, ora boscosi), sempre tenuti con rispetto, quasi poetici, nella loro origine da tragedia. E cimiteri all’interno di quelli delle comunità, paesane e cittadine; abbraccio, sostanziato da fiori, lumini dei locali; visitati da associazioni ungheresi o di altri paesi; mai traccia di Italia; il nostro era il secondo viaggio organizzato per quel preciso scopo; il primo era venuto dal Trentino.

In una giornata grigia di pioggia, per raggiungere una cima con un cimitero, si è provato, seppure in misura infinitesimale (noi ben nutriti, equipaggiati, senza fardelli da portare…), la difficoltà del cammino su quei Carpazi, la cui eco si sente ancora nei nostri paesi. Un fango colloso, avvolgente, risucchiava il passeggero; rendeva gambe pesanti, fiato corto. Eppure, quelli dovevano camminane, camminare, camminare (poi, in gran parte, morire), tanto che ci avevano coniata la loro allegra e dissacrante canzone, forse, perché là qualcuno aveva già sperimentato la naia: “Su e zo per La Galizia/ su e zo per i Carpazi/ vestidi de pajazi/ i ne farà marciar!”.

Si è detto delle città, in Cechia e in Polonia (in Ucraina, non si mise piede, e si sa perché!). Prendiamo Olomüz: stupendo centro universitario, con una grande piazza. Lo sguardo non sa come spartirsi; polifonia di stili architettonici e tanto verde. Un tempo sede di una delle quattro archidiocesi dell’impero; sulla cattedra ci andavano parenti della casa regnante, ma anche uno che orecchia parentele nostrane: Antonino Teodoro Colloredo von Waldsee und Mels; arcivescovo dal 1777 al 1811, e cardinale. Tra i prepositi capitolari si trova un Attems.

Nel palazzo arcivescovile della città, divenne imperatore, in un momento drammatico (1848), Francesco Giuseppe, per l’abdicazione di Ferdinando I. Numerosi piccoli cimiteri (con sopra nubi che promettevano pioggia, o cieli lattiginosi) visitati, con presenze del leggendario reggimento Siebenundneunzig, il 97, soprannominato, a torto, “Demoghèla!”: e fu tra i più massacrati!

Croci di legno, di ghisa, con le generalità in ovali di ferro smaltato; croci di cemento; epigrafi di blanda gloria o di immensa malinconia e fede, come quella (in tedesco), che li dice nella gloria dell’eternità raggiunta prima… Il più strutturato a Nowy Sącz, città polacca di poco più di 80mila abitanti.

Un monumento spettacolare, con una grande statua, in pietra, di guerriero, appoggiata a un obelisco, con la spada rivolta verso il basso; un colonnato che lo circonda e raccoglie l’insieme; una serie di tombe, memoria di un cimitero più grande, ora diventato quello cittadino. Poco lontano, si possono trovare i monumenti ai soldati russi e un monumento, folto di lumi e fiori, di un generale che resistette ai nazisti (insieme ai comunisti, le bestie nere delle guide). Quivi lavoravano, per restaurarlo, operai del comune, ma una targa racconta che sono i giovani studenti di un ginnasio locale a curarlo.

Che dire dello splendore, diurno, notturno, di Cracovia; una vibrante vita studentesca, fatta sì di eccessi, ma anche di gruppi di giovani: cantavano da dio, suonavano a raccogliere fondi per la loro scuola. Chi scrive ha fatto una puntata alla chiesa dei Gesuiti di Santa Barbara, dove sarebbe diventato sacerdote Antonino Zecchini, poi Delegato Apostolico nei Paesi Baltici e Nunzio in Lettonia, mitteleuropeo fin da ragazzo, quando, all’entrata nel noviziato dei Gesuiti, dichiarò che gli piacevano le lingue friulana italiana tedesca e slovena.

Ma la città, dove la grande guerra si leggeva ovunque, è Przemyśl, città fortezza di grande bellezza, al centro di un imponente sistema di forti (uno dei quaranta, ancora perfettamente intatto, altri in restauro) ad ampio raggio per chilometri e chilometri nelle colline circostanti. In una piazza, come in numerose altre città, un’enorme statua bronzea di Giovanni Paolo II, con fiori e fiori, e lumini accesi.

Ci sarebbe tanto da raccontare del tantissimo visto in sette giorni; se non altro, di Brno, città industriale e universitaria della Cechia: dalla cittadella ecclesiastica, nel cui complesso spicca la cattedrale gotica dei Santi Pietro e Paolo, all’altura dello Spielberg, perfettamente restaurato, con i ricordi dei patrioti italici Silvio Pellico e Pietro Maroncelli.

Loro tornarono, ma quattro compagni morirono là. Sulla discesa dal colle, gli è dedicato un monumento, eretto nel 1926, con i nomi, e tanto di lupa capitolina, ma con la scritta cariata dalla mancanza di numerose lettere di bronzo. Si è detto di Przemyśl, fatta apposta per resistere ai Russi, con gran parte dei forti costruiti fra Ottocento e Novecento, mediante uno spaventoso impegno finanziario.

Qui, nel fiume San, dove morirono annegati soldati anche del Litorale, in grande quantità, sono stati gettati due mazzetti di fiori bianchi e rossi, come sono stati deposti in tutti i cimiteri visitati; solo che qui c’era il movimento, lento, dei fiori, nelle acque fluenti, che sembravano capire la commozione del momento.

Più di uno ha recitato dei silenziosi e convinti Requiem. Proprio in questa città, che fu centro di macelleria umana, ho assistito a una scena che non dimenticherò. Emersi da una cantina, dove ci eravamo inabissati per il pranzo, ho visto un uomo, un povero; uno dei tanti reietti della terra, che ci sono in ogni città. Camminava con in mano una borsa di plastica (dentro, forse, tutti i suoi averi) e ha fermato un altro uomo, fra il giovane e la mezza età, che andava di fretta. Ma si è fermato: alla richiesta di una sigaretta, gliel’ ha data, ma l’accendino del povero non andava, allora l’altro ha tratto il suo dalla tasca. Inceppato anche quello!

Risolto l’inghippo, con l’accensione da sigaretta a sigaretta. Il passeggero non si è limitato a questo: lo ha stretto per le braccia, in segno di saluto, poi ha fatto un batti cinque di incoraggiamento, e se n’è andato con passo veloce. Qui, con il passato che conosciamo, un gesto che vale molto molto di più! 

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