LA GRATA MEMORIA
Gorizia ha ricordato il sindaco della rinascita Ferruccio Bernardis

Era scomparso nel 1993. Il racconto di sua figlia Marisa e le altre testimonianze.
Sindaco della rinascita per due mandati consecutivi, Ferruccio Bernardis lavorò per la sua Gorizia dal 1948 al 1961, amando profondamente questa città. Animato da un altissimo senso civico, la sua missione era «essere il sindaco di tutti – come amava ripetere - al di là del credo politico e delle convenzioni nazionali». Si è svolto nel pomeriggio di ieri, giovedì 14 novembre –nella sala Dora Bassi – l’incontro per commemorare Bernardis, ex sindaco del capoluogo isontino scomparso nel 1993. «Il mio papà nasce a Veglia – racconta la figlia Marisa – Dopo il disastro di Caporetto si reca prima a Roma e poi a Genova, dove il nonno morì di spagnola. Mia nonna si ritrovò a fare sacrifici e mandare mio padre al Collegio Dante Alighieri, al quale sarebbe subentrato il liceo classico. Aveva due insegnanti, Bones ed Ervino Pocar». Il primo era un socialista ricercato costretto a spostarsi da un luogo all’altro, «con una tempia sfondata forse da una bastonata».
A causa di una denuncia, Bones venne deportato prima a Trieste e infine in Germania. «Chiese che gli si portasse la Divina Commedia in formato tascabile alla stazione di Gorizia – prosegue Marisa - Quella copia la conservo tuttora, perché il treno non si fermò. I suoi compagni di prigionia, in Germania, gli chiesero di parlare con il comandante del campo. Lui ci parlò, ma mentre usciva venne raggiunto da due colpi di pistola». L’altro insegnante ricordato da Marina era Pocar, che «non interrogava», limitandosi a far intervenire i ragazzi. «A mio padre insegnò ad amare la montagna – ricorda - ma lasciò Gorizia dopo la tragedia della Val Tribussa» in cui trovò la morte Nino Paternolli. Dopo la laurea in legge a Bologna, Bernardis si arruolò come ufficiale degli alpini, attraversando con l’impeto giovanile la Seconda guerra mondiale. «Il gioco preferito del mio papà, che terrorizzava mamma, era prendermi per le braccia e farmi girare, per poi riprendermi sotto le gambe – rievoca Marisa rileggendo i pensieri affidati al suo taccuino – Poi andò in Albania e infine in Grecia come capitano nel Terzo reggimento di artiglieria della brigata “Julia”.
Lì imperversava la fame. Raccontava che ragazzi pelle e ossa frugavano nei cassonetti dell’immondizia per cercare qualcosa». Mentre il fratello maggiore del padre andò incontro alla morte in Libia, Ferruccio venne finalmente rimpatriato. «Insieme al suo amico Mario Marassi riordinò i soldati, portandoli fino a Visco, per poi lasciarli liberi», riporta Marisa in un affascinante viaggio nel passato. Dal quale spicca anche la personalità creativa del noto Tullio Crali – a testimoniare lo spessore intellettuale di Bernardis, che di lì a poco sarebbe diventato sindaco - «Per le elezioni, si presentò come candidato della Dc, ma indipendente – precisa - Perché il primo cittadino doveva essere al di fuori di ogni partito e pensare solo al bene della città. Il suo unico obiettivo era portare il meglio». Quando nel 1947 Gorizia torna all’Italia, Ferruccio scrive per il Piccolo l’articolo “Ritorno di Gorizia all’Italia”, rispecchiando con sentimento e partecipazione il cambiamento epocale. «Tutti gli occhi guardavano verso il Castello, mentre sul pennone oscilla la bandiera americana – si legge sul quotidiano dell’epoca - I cuori sono sospesi, il silenzio nella grande piazza è assoluto. Sale su verso il cielo il tricolore d’Italia.
Il silenzio è interrotto da un solo grido: “Italia!”». Diverse le problematiche cui dovette far fronte, in primis centrate sulle relazioni con i vicini, in una situazione che appariva tesa da entrambe le parti. A questa andò a sommarsi la questione degli esuli e della mancanza dell’intellighenzia, decimata durante la guerra. «Gorizia era stata privata dei suoi cittadini migliori», specifica Marisa. Quanti erano partiti con divisione la Julia per la Russia non avevano fatto ritorno, mentre alcuni erano stati deportati a guerra finita. Un vuoto colmato dagli esuli - ai quali Bernardis diede una dimora entro un anno dalla loro venuta – e dagli jugoslavi contrari a Tito, in cerca di rifugio in Italia. «Un ragazzo riuscì a passare oltre il filo spinato, ricevendo aiuto – prosegue – Poi ci fu un caso tragico. Una donna con due bambini riuscì a superare il confine con il bambino che stringeva fra le braccia, ma un uomo le trattenne la figlia. Mio padre risolse la situazione e riuscì a riunire la famiglia». Fra i ricordi di Marisa, anche quello di una sua parente slovena, che per salutarla fece cadere il fazzoletto, e scuotendolo per togliere la polvere compì segretamente il gesto del saluto.
Impegnato nell’ultimo periodo di guerra come commissario presso l’Ospizio marino di Grado – distrutto e saccheggiato – Ferruccio riuscì a ripristinarlo e renderlo nuovamente accessibile ai malati di scrofolosi e paralisi infantile, o a quei bambini affetti da progeria – la stessa patologia che ha consumato Sammy Basso - «Se ne occupava con costanza, così che ogni domenica dovevamo recarci a Grado per controllare», sottolinea commossa. Se per costruire il Villaggio dell’esule agì di propria responsabilità, non fu da meno nel 1953, quando ricorse all’onorevole Giuseppe Pella per risolvere una situazione spinosa. «Una sera abbiamo sentito il rumore di qualcosa che avanzava». Erano i carri armati che sfilavano lungo il Corso, guidati dai nostri soldati. «Grazie a mio padre, finalmente potevamo sentirci sicuri». E infine venne lei, “Chiara”, la campana di Oslavia voluta dal sindaco e realizzata con il contributo di chi aveva perso i familiari in tutto lo stivale, di recente tornata “a casa” in tutto il suo splendore. «Il suono di Chiara è dolce, non dà tristezza – rimarca - quanto un senso di pace e serenità, sia a noi che oltreconfine». L’interesse per la commemorazione dei caduti vale a Ferruccio la Croce nera d’Austria, rimanendo anche molto unito con l’Associazione nazionale degli alpini.
«Quando andò avanti (perché gli alpini “vanno avanti”, non muoiono) spezzai la penna alpina. Negli anni ho avvertito un vuoto che via via è andato colmandosi, perché in realtà lui mi stava sempre accanto». Una memoria immensa, che va a sommarsi a quella dello storico Pierluigi Lodi. «Apparteneva a quella generazione che si era rimboccata le maniche e aveva rimesso a posto l’Italia – esordisce Lodi – Aveva come unico fine il fare, il “no se pol” era un’espressione sconosciuta a questi giovani uomini. Chi era, Bernardis? Ce lo ha rivelato Marisa. Frutto di un irredentismo di frontiera molto rispettoso, come il suo predecessore Stecchina. Un signore d’altri tempi con valori forti, serio e conscio del proprio mestiere». Un uomo ruvido solo all’apparenza, trasparente e diretto, che fu Segretario generale del comune e in seguito della provincia. «Per certi versi fu accusato di autoritarismo – nota Lodi – In realtà la sua era una profonda conoscenza della macchina amministrativa, oltre che della società civile goriziana con i suoi problemi. Agiva in maniera diretta, forte di una maggioranza coesa».
«Ferruccio è il primo sindaco eletto democraticamente nel secondo dopoguerra – commenta il presidente delle Ricerche turismo e cultura di Gorizia odv, Marina Bressan – Per ben dodici anni è stato sindaco della nostra comunità. Non aveva una tessera del partito, ma è stato sindaco di tutti per amore della città, governando con grandissima umanità e responsabilità, in un periodo molto complesso. Dal quale lui stesso traeva stimolo, prendendo decisioni in prima persona senza convocare la giunta, per il solo bene della città». Un uomo imparziale che serbava profonda fiducia nell’umanità, realizzando nei due mandati – oltre alla Casa degli esuli in Campagnuzza - la Palestra dell’Ugg, una Casa di riposo e la celebre campana, che con i suoi rintocchi commemora la morte di tutti, senza distinzioni né confini. Un sindaco che andrebbe ricordato soprattutto alle nuove generazioni, come esempio di pace possibile fra i popoli dei nostri territori e al di là degli altri orizzonti.
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