Gorizia, Paolo Rumiz racconta il 'suo' confine al Kulturni Dom sulle note della Piccola Orchestra dei Popoli

Gorizia, Paolo Rumiz racconta il 'suo' confine al Kulturni Dom sulle note della Piccola Orchestra dei Popoli

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Gorizia, Paolo Rumiz racconta il 'suo' confine al Kulturni Dom sulle note della Piccola Orchestra dei Popoli

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 13 Apr 2025
Copertina per Gorizia, Paolo Rumiz racconta il 'suo' confine al Kulturni Dom sulle note della Piccola Orchestra dei Popoli

Grande successo di pubblico per la serata. Il presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia Treccani Carlo Ossola, «non è stato uno spettacolo ma un momento di verità».

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Una volta erano barche che fendevano il luccichio del mare. Oggi sono strumenti, e con il loro suono raccontano il viaggio dei popoli e dei migranti. Nella meravigliosa acustica del gremito Kulturni Dom si è esibita sabato 12 aprile la Piccola Orchestra dei Popoli, accompagnata dalle letture del giornalista, scrittore e viaggiatore Paolo Rumiz.

Una serata in cui il cuore dello spettacolo - diretto da Ciro Menale - ha pulsato all’unisono con la parola “confine”, che la fondazione Treccani reinterpreta calcando l’esperienza emblematica di Nova Gorica e Gorizia. «Se questa definizione sarà codificata nel nuovo Treccani, rappresenterà un segno della lezione che ne abbiamo tratto», rimarca il presidente della CaRiGo Alberto Bergamin, auspicando possa trattarsi di un «segno indelebile per il futuro» in aggiunta al volume “Alcide De Gasperi a Gorizia”. «Vorrei far parlare questa materia – è intervenuto Arnoldo Mosca Mondadori, fondatore dell’Orchestra del Mare – perché queste che vedete non sono assi colorate di un violoncello, ma barche».

La luna illumina il buio rispecchiandosi nella vastità del Mar Mediterraneo, il cui azzurro la notte trasforma in nero pece. Le piccole imbarcazioni dei migranti sfidano la morte, dirette a Lampedusa. «Ero sul molo Favarolo nel 2021 – racconta Mosca Mondadori – quando vidi attraccare una barca di sei metri e mezzo con sessanta persone stipate. E dentro la stiva c’erano anche bambini. Vidi scendere un bimbo solo, a piedi scalzi: veniva da giorni di viaggio, aveva appena nove anni. Lui ha camminato su queste assi». Un’idea portata alla luce in seno alla liuteria del carcere di Opera, dove il legno dei barconi venne utilizzato per creare strumenti musicali. «Quando seppi che queste barche venivano distrutte chiesi al ministro Lamorgese di trasformarle – spiega – portando cento imbarcazioni nel campo di calcio dei detenuti». Storie che s’intersecano ad altre, come quella del detenuto Andrea Volonghi, che scrisse il monologo “Spaccabarche” nell’ambito del progetto “Metamorfosi”. Un “canto del legno” eseguito innanzi a Papa Francesco e approdata alla Scala di Milano insieme a Rumiz, grazie al miracolo di un’orchestra nata «per dar voce a quel bambino e a quanti fuggono dalla fame». A ottobre l’itinerario proseguirà alla volta del carcere di Sing Sing nello Stato di New York, portando simbolicamente le barche oltreoceano.

«Questa sera verrete con noi in un viaggio che oltrepassa le frontiere e demolisce l’idea di nazione come possesso esclusivo di una terra», avverte Rumiz nell’incipit del suo narrare. Inseguendo «una via dei canti che scopre molto di ciò che abbiamo perduto» si parte a bordo di un favoloso treno che «scavalca fiumi color rame», la cui motrice si getta a precipizio oltre i Carpazi in un «susseguirsi d’incontri». E mentre suona le sue tabla il musicista di Calcutta Arup KantiDas, Rumiz domanda retoricamente «Perché questa voglia di varcare le frontiere?», tornando alla notte del 21 dicembre del 2007, quando la Slovenia entra nell’area Schengen e la sbarra «diventava un souvenir», scambiandosi «baci a caso».

Una linea di cui lo scrittore percepisce la mancanza: «Sono figlio della frontiera – prosegue – ne percorro il suo filo rosso come un equilibrista col cavo d’acciaio». In lui abitano nazionalità diverse – persino la Rumelia dell’Impero ottomano – che lo inseguono in questo infinito viaggiare con i volti «di persone conosciute anche solo per un giorno». Insiste nel suo delicato lamento il violino del mare suonato da Pietro Boscacci, accompagnato dal virtuosismo del violoncello di Issei Watanabe che picchietta le corde con l’archetto. Si intercalano le voci dell’albanese MiraZonja e Shinobu Kikuchi allo shin in, ma anche la voce suadente di Renata Mezenov Sa alla chitarra del mare, Sever “Persic” Iancu alla fisarmonica e del libanese Ghazi Makhoul al suo liuto variopinto. Riaffiora il volto di Leonid, che nel cuore della tundra offrì allo scrittore «un micidiale bicchiere di vodka». A Leonid si sovrappone Béatrice, incontrata sul treno che da Marsiglia corre verso Parigi, e poi Masha, Alejandro, Ljuba.

Finché, ecco comparire un uomo «che cammina sul crinale del monte» in completa solitudine, colui che è dedito a quella viandanza celebrata anche nei romanzi di Luigi Nacci. «Vorreste seguirlo? Pensateci due volte – ammonisce Rumiz – perché è uno che detesta le città e ne è detestato». E ancora, «canta da solo, suona il tamburo sul bordo dei laghi. È del nomade, che ci parla, un uomo padrone del tempo». Parole che intendono rivelare come nelle migrazioni dei popoli risieda la radice della nostra stessa essenza, in quel nomadismo che ha reso stanziale un gruppo ristretto di migranti fino a originare la nazione.

«I tempi sono tristi – riflette ancora Rumiz – le nazioni brancolano nel buio, tornano alla barbarie dei reticolati. E così schiacciata, la nostra terra madre rinuncia alla propria storia, persino alla propria lingua. Delega a milizie spietate la difesa delle frontiere». È l’era del disumano, in cui chi fugge dalle guerre e dall’indigenza viene considerato abietto, in una pericolosa spirale di odio che ormai contagia il mondo intero. «Eppure – conclude con trasporto - mi ostino a cercarti, Europa. Ho esposto la tua bandiera, ti ho dedicato libri, e stasera ti racconto ancora, accompagnato da strumenti intrisi di sale e di dolore. Se i tempi sono bui, mai come ora serve la luce del tuo mito». Ed è invocando l’Europa, «tenera migrante madre della nostra stirpe» che lo spettacolo approda alla conclusione in un lungo applauso.

«Non è stato uno spettacolo – precisa il presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Carlo Ossola – ma un momento di verità. Mi tornano a mente le parole del regista georgiano Otar Ioseliani: “Viaggio solo per incontrare amici”. Questa sera abbiamo avuto un bouquet commovente di amici. Solo le città di confine conservano la materia del legame, e la musica concilia sempre perché s’innalza al di sopra delle parole», conclude. 

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