Gorizia festeggia il suo Natale: 1020 anni di storia tra patriarchi, imperi e conti

Gorizia festeggia il suo Natale: 1020 anni di storia tra patriarchi, imperi e conti

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Gorizia festeggia il suo Natale: 1020 anni di storia tra patriarchi, imperi e conti

Di Vanni Feresin • Pubblicato il 28 Apr 2021
Copertina per Gorizia festeggia il suo Natale: 1020 anni di storia tra patriarchi, imperi e conti

Era il 1001 quando l’imperatore Ottone III donò metà della villa di Gorizia al patriarca d’Aquileia Giovanni. Il racconto di Vanni Feresin.

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Sono passati 20 anni dalle grandi celebrazioni del millenario della città di Gorizia, furono giornate intense e significative. È sempre interessante parlare della nostra città, del periodo comitale e dei conti, delle storie, delle leggende e oggi che è il compleanno della nostra città propongo una breve riflessione sulle origini di Gorizia.

Damus et domamus cum omni jure Johanni Patriarchae et Ecclesiae Aquilejentis medietatem unius castelli quod dicitur Siliganum et medietatem unius ville que Sclavorum lingua vocatur Goriza nec non medietatem omnium donorum, vinearum, camporum, pascuorum… nec non omnium rerum quas in illis locis Syligano atque Goriza vel in finibus locorum que sunt inter Ysoncium et Wipacum et Ortaona atque in iuga Alpium cum finibus et omnibus iuribus antedictis […]

Traduzione: Diamo ogni diritto a Giovanni patriarca e alla chiesa d’Aquileia la metà d’un castello che si chiama Salcano e la metà d’una villa che con la lingua slava si chiama Gorizia, e inoltre la metà di tutte le case, le vigne, i campi, i pascoli… e di tutte le cose che in quei luoghi di Salcano e di Gorizia ossia nel territorio fra l’Isonzo, il Vipacco, Vertovino e l’arco alpino…

Così ha inizio tradizionalmente la storia millenaria della città di Gorizia. Il documento imperiale, redatto a Ravenna e datato 28 aprile 1001, riguarda la donazione da parte dell’imperatore Ottone III (oltre che di molti beni) di metà della villa di Gorizia al patriarca d’Aquileia Giovanni. L’altra metà di questi beni verrà invece attribuita dall’imperatore Corrado a Verihen o Werner o Guariento, conte del Friuli: questo secondo documento invece venne redatto a Pavia alla fine di quello stesso 1001, ed è giunto a noi in condizioni molto deteriorate.

Nel 1077, Enrico IV donò al patriarca Sigeardo il dominio temporale della contea del Friuli ma Gorizia non venne menzionata a differenza della villa di Lucinico, dalla parte destra dell’Isonzo, che invece era citata come un’entità separata dalla stessa contea. Fin dai primi anni del secolo XI il castello, sorto sulla collina goriziana, soppiantò quello di Salcano. La contea era saldamente in mano alla famiglia degli Eppenstein (si ricorda un Marquarto III, conte di Gorizia) che la tenne fino al 1090 quando gli succedettero la famiglia degli Hohenburg con Mainardo, capostipite, fino all’estinzione del 1127.

Questo, oltre che conte di Gorizia, fu anche avvocato della chiesa di Aquileia, carica rilevante in quanto doveva sostituirsi al patriarca nelle funzioni secolari, giudiziarie e militari, che erano per stessa natura incompatibili con la veste ecclesiastica. Il titolo sarà appannaggio quasi esclusivo dei goriziani.

I conti goriziani, secondo Guglielmo Coronini Cromberg, sono stati feudatari dei patriarchi ma quali dei loro beni siano stati feudi patriarcali e quali patrimoniali era già rimasto intenzionalmente confuso all’epoca ed ora è ancora più inestricabile. Disponevano liberamente di castelli e già nel 1210 avevano ottenuto dall’imperatore il privilegio del mercato settimanale, senza interposizioni patriarcali cui sarebbe spettata la concessione, nonché l’istituto dell’avvocazia che i conti di Gorizia esercitavano nel patriarcato non senza abusi e violenze, sempre però garantiti da completa impunità e immunità.

Gli scontri tra conti e patriarchi

Nel corso del XIII secolo gli scontri con il patriarca furono molteplici: i successori di Mainardo, Enrico I (anche podestà di Trieste), ed Enghelberto II (crociato con Corrado II, e seguì anche Federico Barbarossa nel suo viaggio in Italia nel 1154) furono acerrimi nemici del patriarca proprio per la loro impronta chiaramente ghibellina. Il patriarca Pellegrino I nel 1150 fu catturato da Enghelberto e tratto in arresto a Gorizia: dovettero intervenire alcuni principi tedeschi perché il prelato fosse liberato.

Anche con il patriarca Ulrico II (1161 – 1191) ci furono forti tensioni in quanto questi nella lotta tra papa Alessandro III e Federico Barbarossa si pose a favore del pontefice. I successori di Enghelberto (Mainardo II ed Enghelberto III) crebbero e precisarono i loro diritti feudali: battendo moneta con lo scudo di famiglia (il leone rampante) e con la rosa a sei petali, che contraddistingueva la zecca di Lienz. Quando si allearono con Treviso, contro il patriarca, lo assalirono e lo sconfissero: l’alto prelato venne salvato in extremis da Venezia, dai carinziani, dal Tirolo e dallo stesso papa.

La pace firmata a Cormòns nella chiesetta di San Quirino, il 21 gennaio 1202, fissò la devoluzione o il riconoscimento ai conti del pieno possesso del castrum de Goritia cum omni proprietate, servis et ancillis, et omni jure ad ipsum pertinente, Ministerialibus exceptis (il castello di Gorizia con tutte le proprietà, la servitù e ogni diritto spettategli, esclusi i ministeriali). In pratica, il conte otteneva la giurisdizione da Monfalcone all’Isonzo e da questo al mare, con i castelli di Cormons, Arispergo, Barbana e Tomaj.
I rapporti migliorarono solamente con i patriarchi Wolfgero, con il suo successore Pellegrino II e con Bertoldo (1218 – 1251); quest’ultimo oscillava nella sua posizione e visione politica tra l’imperatore Federico e il papa, anche se alla fine prevalse il favore romano in antitesi al ghibellinismo dei conti.

Enghelberto III fu nominato al Parlamento friulano condottiero delle truppe patriarcali; in suo assenza si fece sostituire da un capitano, titolo che rimase fino a tutto il Settecento. I primi conti furono seppelliti nell’abbazia di Rosazzo fondata verso la metà dell’undicesimo secolo. Le spoglie mortali degli ultimi invece furono collocate in Tirolo, tra Sillian e Lienz dove sorgeva il castello più importante dopo quello di Gorizia. Il problema più cogente era la visione patrimoniale della sovranità comitale, piuttosto che quella politico – statuale. La dispersione dei castelli, dei distretti e pertinenze disseminati in un vasto raggio insieme alle ripetute divisioni ereditarie, i dissensi familiari e l’instabile equilibrio di doti ricevute dalla famiglia comitale, potevano provocare una costante instabilità e debilitazione della sovranità, invece giocarono a favore della dinastia.

Il figlio di Enghelberto III, Mainardo III, resse la contea da solo, fedele a Federico II, che invece lo voleva Capitano Generale dell’Impero nella Stiria. La sua casa si arricchì per via ereditaria grazie ai lasciti degli Andechs: nel 1248 ereditò i beni relativi alle valli dell’Inn e del Sill, e nel 1253, alla morte del suocero, Alberto del Tirolo, oltre al titolo di conte del Tirolo, ottenne la valle superiore dell’Inn e la val Venosta alla quale si aggiunse Appiano e Ultimo.

La tensione con il patriarca risorse nel 1250 quando, occupato il castello di Lucinico, Mainardo III attaccò il duca di Carinzia, alleato del patriarca. L’aiuto del suocero, il conte del Tirolo Alberto, non gli bastò (Alberto stesso cadde prigioniero), mentre il conte di Gorizia dovette sottostare a condizioni molto gravose sia per la riconsegna del figlio Mainardo sia del suocero Alberto, sia per un cospicuo versamento in denaro e la cessione di molte terre.

Il figlio Mainardo successe al padre Mainardo III nel 1258, con il nome di Mainardo IV e conte del Tirolo II, divenne duca di Carinzia e avvocato della chiesa di Aquileia, fu fiero ghibellino e continuò la politica del padre in favore degli Svevi; sposò Elisabetta di Baviera (vedova dell’imperatore Corrado IV) la quale morirà dopo pochi anni, nel 1269. Mainardo IV si dimostrerà fedele paladino della causa di Rodolfo d’Asburgo, il quale una volta divenuto re di Germania e dei Romani, nel 1273, lo ricompenserà donandogli il Ducato di Carinzia e il titolo di Principe del Sacro Romano Impero; l’intesa si rinsalderà ancora maggiormente quando la figlia di Mainardo, Elisabetta, sposerà Alberto figlio di Rodolfo.

Con Alberto II, fratello di Mainardo IV e co-reggente, i rapporti con il patriarcato si disgregarono nuovamente, infatti il conte fece incatenare il vecchio patriarca Gregorio di Montelongo e a piedi lo condusse a Gorizia tra gli insulti del popolo: per la sua liberazione dovette intervenire Ottocaro di Boemia. L’anno seguente, nel 1268, un nuovo terribile agguato del conte, da cui Gregorio scampò, ma che provocò la morte del Vescovo di Concordia, già vicedomino del patriarca.

Le contese tra il patriarca e i conti continuarono anche negli anni seguenti sia con i presuli Filippo sia con Raimondo della Torre: Alberto II, che co-reggeva con il fratello Mainardo IV, decise di dividere i beni del casato e nel 1272 per sé riservò la contea di Gorizia, la contea palatina della Carinzia, la Pusteria, la Marca Vendica e di Rechner, nonché la contea di Pisino nell’Istria interna; a Mainardo andò il Tirolo. Ambedue conservarono il titolo di conti di Gorizia e del Tirolo nonché avvocati di Aquileia, Trento e Bressanone. Il ramo del Tirolo si estinse a metà del Trecento mentre quello goriziano fu maggiormente fortunato, proprio con la discendenza di Alberto II e di suo figlio Enrico II (1304 – 1323).

L’ultimo secolo

Nel 1394 Enrico IV, ormai maggiorenne, iniziò il suo regno che durerà sessant’anni fino al 1454: ridivenne avvocato della chiesa di Aquileia, ottenne il titolo di vicario generale e poi amministratore di Feltre e Belluno; gli Asburgo lo elevarono al grado di Capitano di Carniola e Venezia lo investì del grado di Maresciallo del Friuli. Intanto la situazione del patriarcato stava degenerando, infatti sotto Ludovico di Teck, nel 1420 ebbe termine il potere feudale proprio a causa del duro intervento di Venezia, non senza l’immobilismo della nobiltà friulana profondamente divisa al suo interno.

Enrico IV tentò invano di contrastare l’avanzata di Venezia, anche con l’ausilio degli ungheresi, ma nel 1424, insieme al fratello Giovanni Mainardo, venne ricevuto dal doge che li investì dei feudi già precedentemente ottenuti dai patriarchi, nonché consegnò loro il bastone di maresciallo del Friuli e lo stendardo bianco e rosso. Come sottolinea Sergio Tavano, in questo modo: Venezia volle fondare le sue pretese su tutti i possedimenti dei Goriziani, suscitando la reazione più vivace dell’imperatore che invece considerava i conti di Gorizia fra i suoi principi, non subordinati ad altro potere che al suo.

Dopo la morte di Enrico gli succedettero in pochi anni il fratello Giovanni, poi i figli Ludovico (morto nel 1457) e nel 1462 Leonardo, ultimo conte di Gorizia. Quest’ultimo rimase solo al governo per quasi quarant’anni, tentò di sposare una Visconti di Milano ma ottenne Paola Gonzaga dalla quale credeva di poter ricavare una ricca dote e una discendenza maschile; probabilmente ebbe un’unica figlia scomparsa ancora bambina. Come scrive Sergio Tavano: nell’azione tendente a fiaccare e ad assorbire Gorizia e la sua contea, Venezia approfittò della circostanza per costruire una fortezza a Gradisca, proprio nel territorio della contea: era facile camuffare un intento con l’altro. Per reagire Leonardo si volse ancor più decisamente verso gli Asburgo.

Massimiliano lo prese sotto la sua protezione e ottenne da lui la permuta di territori esposti a Venezia (Cormons, Castelnuovo, Codroipo e Latisana) in cambio di castelli più a settentrione; di conseguenza veniva spostata ancor di più verso le terre transalpine l’asse della politica goriziana, che del resto aveva sempre guardato con preferenza in quella direzione, sia per ciò che riguarda le alleanze sia per i legami matrimoniali.

La Principesca Contea era a tutti gli effetti un insieme unitario, consolidatosi in cinque secoli di storia.

Leonardo anche se molto attaccato ai possedimenti e geloso della propria dignità di Principe del Sacro Romano Impero vedeva in Massimiliano l’unica alternativa affinché la contea non cadesse nelle mani venete e non venisse smembrata; anche i sudditi di Leonardo guardavano alla contea come ad uno stato unitario e inscindibile, e anche loro sapevano che solo la potenza imperiale era l’unita salvezza alla Serenissima. Nel 1497 spirò la moglie Paola Gonzaga. Leonardo decise di non sposarsi dopo vedovo, come avevano fatto suo padre e suo nonno, arrendendosi al destino di morire senza discendenza. Il 27 febbraio 1497 si realizzò il contratto di scambio con l’imperatore Massimiliano I.

Il conte concedeva all’imperatore, inizialmente per dodici anni, i castelli di Cormons, Belgrado, Codroipo, Castelnuovo, Latisana e Flambro ottenendo in cambio la valle del Vipacco presso Gorizia e le vecchie signorie in Alta Carinzia (Kirchheim, Oderdrauburg, Pittersberg) e Moosburg. Gli ultimi anni del conte furono molto tormentati da una vecchia malattia e da una serie di dispiaceri.

Leonardo, fine di una dinastia

Leonardo morì il 12 aprile 1500, domenica delle Palme, inumato già il giorno successivo nella chiesa parrocchiale di Lienz. L’imperatore Massimiliano protestò per i costi eccessivamente ingenti delle esequie che si svolsero solo un mese più tardi. L’ultimo conte è ricordato ancora oggi, nella cappella di Sant’Anna della Chiesa Cattedrale di Gorizia, da una lapide murata nella quale si vedono le armi del Tirolo, dei Gonzaga, della Carinzia e di Gorizia, e si legge in tedesco Leonardo per la Grazia di Dio conte palatino della Carinzia, conte di Gorizia e del Tirolo, avvocato delle case d’Iddio di Aquileia, di Trento e di Bressanone, ha fatto fare questa lapide, nell’anno […].

Sergio Tavano nella premessa alla monografia “I Goriziani nel medioevo: conti e cittadini” a pagina 12 ricorda che la contea di Gorizia nell’aprile del 1500 passò tra i possessi degli Asburgo e il suo titolo visse fino all’ultimo imperatore, Carlo I: portava con sé l’indicazione d’un’identità precisa. Le coordinate, in senso territoriale e soprattutto in senso politico – istituzionale, si può dire che fossero stabilite già dal diploma di Ottone III del 28 aprile 1001: alla fine la contea ebbe e mantenne una sua identità culturale, omogenea nella varietà delle parlate. Si può dire liberamente che la contea resistette oltre ogni condizionamento fino al 1923, quando la soppressione della provincia di Gorizia dissolse un legame che era stato dinastico ed era divenuto nei secoli culturalmente unitario.

Foto Flavio Chianese/Flickr.

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