Food for profit
A Gorizia il docufilm che indaga l'industria del cibo, tra lobby e agribusiness

Presente in sala la presidente di Legambiente Gorizia, Anna Maria Tomasich, che a conclusione ha concesso spazio alle riflessioni del pubblico.
Un pugno nello stomaco. Così vi lascia, il documentario “Food for profit” diretto da Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi, proiettato ieri sera presso il Kinemax di Gorizia nella Giornata mondiale della Terra. Una proiezione che si ripeterà oggi e mercoledì, per poi trovare spazio al Kinemax di Monfalcone la prima settimana di maggio. Sulla falsariga del saggio “Se niente importa” di Jonathan Safran Foer, la giornalista sviluppa un’inchiesta intorno allo scandalo degli allevamenti intensivi. Sono più di 55 miliardi di euro l’anno, i fondi destinati all’agribusiness dal Parlamento europeo, mediati dalla copertura del così detto “Green Deal” che resterà in vigore fino al 2027.
Un documentario realizzato insieme al filmaker londinese D’Ambrosi, con la collaborazione di alcuni attivisti inseriti sotto copertura negli allevamenti per filmare massacri e liquami. La carta più difficile la gioca il finto lobbista (Lorenzo Mineo), che con una telecamera nascosta si introduce nei palazzi di Bruxelles portando a galla una verità ancora più sconvolgente. Quella dell’editing genetico proposto dalle lobby, per aumentare la produttività riducendo i costi. L’obiettivo è creare su vasta scala «bovini senza corna e polli senza piume», auspica Pekka Pesonen, parlamentare europeo nonché segretario generale di Copa-Cogeca, che rappresenta le cooperative agricole dell’Unione europea.
Il viaggio dell’orrore inizia nelle Polesine, «una delle riserve naturali più estese d’Europa», dove negli ultimi decenni gli allevamenti intensivi «sono spuntati come funghi». Grazie all’attivista Stef entriamo nelle stalle, dove il pavimento viene lavato «forse una volta all’anno» nonostante sia stata rinvenuta la Salmonella. Qui i polli che pesano meno rispetto alla media vengono considerato scarti e ammazzati con un bastone. Sono uccisioni «affrettate, rudimentali», che lasciano i volatili agonizzanti poi gettati nel cesto insieme ai morti. «Nessun regolamento europeo prevede che gli scarti vengano soppressi», ci avverte la scritta in sovraimpressione.
«Un giorno in poche ore sono morti 15mila o 16mila polli - racconta Stef – Il responsabile li ha fatti caricare e depositare all’aria aperta», con un rischio altissimo di infettività. «Più si evolve negli allevamenti intensivi, maggiori probabilità avrà di trasmettersi agli esseri umani», commenta il saggista David Quammen, autore del celebre “Spillover”. Il riferimento è al virus dell’aviaria, impegnato a «esplorare le sue possibilità», che potrebbe essere «la prossima pandemia». A causa dell’aviaria solo nel 2022 sono stati abbattuti più di 50milioni di polli. Uno dei Paesi più colpiti è la Polonia, dove si reca Innocenzi.
A Żuromin gli odori nauseabondi dell’ammoniaca causano problemi respiratori ai cittadini, con un conseguente crollo del prezzo delle case. Si tratta di allevamenti che ricevono ingenti finanziamenti dall’Unione europea, come del resto gli altri mostrati. Non va meglio a Murcia, dove si allevano più di due milioni di maiali, mentre il piccolo allevatore Pepe tenta invano di denunciare gli sversamenti e le vasche di liquami abbandonate da anni a cielo aperto.
Un ingranaggio inceppato in cui la produttività è la priorità, a scapito della salute umana e dello stesso ambiente. A spiegarci il meccanismo perverso delle lobby è Nina Holland, secondo cui «sono gli stessi lobbisti a candidarsi alle elezioni», come è accaduto a Benoît Cassart. «Il segreto per ottenere l’approvazione di un progetto controverso sta nel tenere l’opinione pubblica all’oscuro». Il culmine dell’esperimento di Mineo si riscontra con la proposta di un finto emendamento «per convertire escrementi di vacca in mangime». Gilles Lebreton si dichiara senza preconcetti, mentre Attila Ara-Kovács «non ha niente da opporre». Né sconvolge Paolo De Castro l’idea di un maiale a sei zampe, perché aumenta la produzione e in fondo «la battaglia prima o poi la vinceremo».
Non manca una riflessione con il filosofo australiano Peter Singer, che rimarca l’errata tendenza umana nel distinguere animali “da compagnia” da quelli destinati a essere mangiati. Una questione antropologica controversa, già affrontata da Safran Foer con l’interrogativo “Perché mangiamo gli animali?”. Laddove il mondo occidentale s’indigna di fronte all’usanza di mangiare cani, le nostre pentole traboccano di animali intelligenti che «riteniamo inferiori», mutilati e sgozzati negli allevamenti senz’anestesia alcuna. Una trappola cui gran parte della popolazione si abbandona, ignara che gli animali siano vissuti nei propri escrementi, imbottiti fin dalla nascita con farmaci a scopo preventivo.
Antibiotici che passano nel nostro organismo attraverso la dieta, contribuendo a generare quei batteri “super resistenti” contro i quali non hanno più efficacia. La favola delle “galline allevate a terra” conserva solo l’accezione figurata, con animali costretti in gabbie claustrofobiche, tramortiti dalle torture o schiacciati dagli operatori frettolosi. Un vero “tritacarne” – citando il libro con cui Innocenzi precede il documentario – che monopolizza le nostre tavole mostrandoci soltanto una faccia della medaglia.
Presente in sala la presidente di Legambiente Gorizia, Anna Maria Tomasich, che a conclusione ha concesso spazio alle riflessioni del pubblico, diviso fra quanti manifestano consenso verso la carne da coltivare nei bioreattori e quanti la considerano invece una pratica deprecabile. «Dobbiamo guidare i nostri leader», suggerisce Safran Foer nell’ultima sequenza. E al contempo «interrompere i finanziamenti pubblici agli allevamenti intensivi», aggiunge Innocenzi nel suo documentario. Soltanto così potremo ovviare al problema etico della sofferenza procurata agli animali, mentre «se niente importa, non c’è niente sa salvare».
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