L'EVENTO
‘The girl with the needle’ porta la Copenaghen tenebrosa a Gorizia, il premio èStoria Film Festival 2025 a Line Langebek Knudse

La sceneggiatrice danese è stata insignita ieri sera al Kinemax in occasione della proiezione. La motivazione della giuria, «ciò che appare mera cornice è in realtà sostanza».
Presentato lo scorso anno alla 77esima edizione del Festival di Cannes, “The girl with the needle” (Pigen med nålen, 2024) del regista svedese Magnus Von Horn è stato proiettato nella serata di ieri al Kinemax di Gorizia, in lingua originale con i sottotitoli in italiano. A introdurre e commentare il thriller horror insieme al critico Paolo Lughi la stessa sceneggiatrice Line Langebek Knudse, che ha ricevuto il premio èStoria film festival 2025. «Ciò che appare mera cornice è in realtà sostanza», ha rimarcato il presidente Adriano Ossola leggendo le motivazioni della giuria.
Quella di Von Horn è una terrificante e lunga discesa agli inferi, con richiami all’espressionismo tedesco e al cinema delle origini, fra cui anche un omaggio ai fratelli Lumière, con la sequenza in cui la protagonista esce dalla fabbrica Kitzler sovrapponibile alla “La sortie des usines Lumière” (1895). La stessa scelta del bianco e nero è un sottile gioco di citazioni, nel quale lo spettatore rimane intrappolato come in un labirinto di specchi: da Bergman a Dreyer fino al contemporaneo “The Lighthouse” (2019) di Robert Eggers, il film affonda le sue radici nella storia del cinema. Un monocromo universo a tinte fosche dal quale affiora in toni contrastati tutto l’orrore che si cela nelle viscere umane.
Nel livore di una Copenaghen appena risorta dalla Grande guerra, Karoline (Vic Carmen Sonne, di impressionante somiglianza con Emmanuelle Seigner) si ritrova sola al mondo, dopo essere stata sedotta e abbandonata dal datore di lavoro Jørgen (Johachim Fjelstrup) del quale rimane incinta. Un’accorata riflessione sulla maternità e sulla condizione femminile d’inizio Novecento e al contempo una coraggiosa denuncia. Da cui a un secolo di distanza emerge una donna ancora soggiogata all’universo maschile, disperatamente intenta ad affrancarsene. «Nonostante gli eventi appartengano al passato, narrano degli stessi problemi di oggi - ammette la sceneggiatrice – e i giovani cineasti avvertono l’impegno di esprimersi non solo sul femminismo, ma anche sui tanti aspetti sociali. Perché viviamo in un mondo in cui c’è molto da dire».
La sequenza iniziale si apre in un morphing di volti deformati dal dolore, con allusioni pittoriche che ricordano Egon Schiele o Francis Bacon. L’intenzione di Von Horn è lo scavo nelle deformità e cicatrici per portare alla luce ciò che rimane: da un lato il dolore tangibile, procurato da uno spillone («the needle») o dalle ferite della guerra; dall’altro quello inguaribile dell’anima, che né la morfina né l’etere possono lenire. Un’operazione non dissimile da quella dello scultore che “toglie” per plasmare le forme, dove ogni inquadratura diventa polisemica e aspira a restituire l’universale del singolare.
Una dissacrante indagine intorno alla tematica della violenza e della deformità che ha inizio con il respiro fuori campo del marito Peter (Besir Zeciri), tornato dalla guerra orribilmente mutilato. Peter è una sorta di “elephant man”, un fenomeno da baraccone «sputato dalla guerra», costretto a indossare una maschera per nascondere il volto deturpato. Se le figure femminili si ritrovano in bilico fra droga e follia, quelle maschili appaiono piagnucolose – come il direttore, che ritratterà il matrimonio per volontà della madre baronessa - oppure al margine della società. A quest’ultima categoria appartiene il marito, traumatizzato dalla guerra e perseguitato dagli incubi come il maggiore Dorian (Christopher Jones) ne “La figlia di Ryan” (1970) di David Lean. «Qualcuno ha il coraggio di toccarlo?», viene ridicolizzato durante lo spettacolo da circo, senz’altra speranza di reintegro sociale. Per poi mostrarlo al pubblico privo di maschera come il deforme “uomo che ride” di Victor Hugo, a sua volta trasposto nell’omonimo film di Paul Leni (1928).
Ma la tematica centrale ruota intorno a un fatto realmente accaduto, che getta uno sguardo impietoso sul mondo delle adozioni illegali e sul caso di Dagmar Johanne Amalie Overbye (Trine Dyrholm). La serial killer uccise tra il 1913 e il 1920 almeno una ventina di neonati, prima di essere condannata e morire in cella all’età di 42 anni. «La storia – racconta Langebek Knudse – l’avevo letta in un libro di mio padre che parlava di crimini. C’era qualcosa che m’intrigava, e il fatto stesso di capire perché questa donna diventasse violenta mi ha portato a vederla in maniera diversa». La ricerca è durata sette anni, iniziata fra le trascrizioni delle udienze e proseguita fra le mura dei musei, compreso uno di chirurgia plastica situato nel Regno Unito dove la sceneggiatrice attualmente vive.
Un lavoro confluito in un’opera corale in cui la metropoli emerge attraverso uno «stile gotico», come ha sottolineato Lughi. Pennellate che tratteggiano una società bestiale, dove l’umanità è marginalizzata fra nani e psicopatici come nelle opere dello svedese Johannes Nyholm. Un mondo dove l’orrore deve essere nascosto sotto il tappeto come accade ai miseri resti della neonata gettata nella stufa, perché «il mondo è un posto terribile, ma dobbiamo credere che non sia così».
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