Prigionieri perché jugoslavi, la storia dei campi di concentramento italiani tra Gorizia e Visco

Prigionieri perché jugoslavi, la storia dei campi di concentramento italiani tra Gorizia e Visco

La giornata della memoria

Prigionieri perché jugoslavi, la storia dei campi di concentramento italiani tra Gorizia e Visco

Di Timothy Dissegna • Pubblicato il 27 Gen 2021
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A 80 anni dall'invasione italiana della Jugoslavia, il ricordo dei campi di concentramento per slavi decisi dal regime fascista

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Ormai da qualche anno, affianco della triste pagina della Risiera di San Saba di Trieste, unico lager nazista in Italia, la storia sta riscoprendo anche quelle altrettanto amare dei campi di concentramento italiani per jugoslavi. In particolare, quelli di Gonars e Visco (nella foto, qui oggi sorge il campo addestramento e parco mezzi della locale Protezione civile), oltre che quello di Poggio Terza Armata, in comune di Sagrado, e Fossalon, a Grado. Dopo la dichiarazione di guerra all'allora Regno di Jugoslavia, l'11 aprile 1941, l'esercito di Roma entrò vittorioso a Lubiana, ponendo buona parte della Slovenia sotto il proprio controllo. Fu l'inizio dell'occupazione dei Balcani, a cui seguì una politica fortemente anti-slava verso gli abitanti di quelle aree.

Come ricorda Boris Mario Gombač nell’articolo “Nei campi di concentramento fascisti di Rab — Arbe e Gonars”, pubblicato sulla “Rivista telematica di studi sulla memoria femminile”: “A differenza dei tedeschi, che avevano stretto la loro zona d’occupazione in un abbraccio mortale, l’Italia preferì un’occupazione diversa, dando alla provincia di Lubiana un’autonomia che prevedeva una consulta formata da 14 consiglieri sloveni”. Gli inizi non furono dunque caratterizzati da drastiche violenze. Herman Janež, presidente del Comitato internati di Rab (in Croazia), in un’intervista ha definito questo cambio di linea politica necessaria “per stroncare l’aiuto che la popolazione offriva alla resistenza slovena che operava nella regione di Kočevje".

Janež all’epoca aveva 7 anni e ricorda così il momento della partenza: “I soldati entrarono urlando, buttandoci giù dai letti e colpendo con i calci dei fucili chi si fermava. Siamo stati ammassati nella piazzetta dietro alla chiesa. (…). Prima ci hanno fatto fare sotto scorta la strada a piedi fino al centro di Čabar (…). Poi, il giorno seguente, ci hanno divisi in tre gruppi, uomini, donne e bambini e hanno fatto l’appello. Se qualche uomo mancava, voleva dire che era partigiano e quindi tutta la famiglia rischiava di essere passata per le armi”. Lo storico Carlo Spartaco Capogreco ha raccolto i nomi dei diversi luoghi d’internamento, diventati campi di concentramento “de facto”, nel suo libro “I campi del duce” (Einaudi). In zona se ne contavano, tra cui uno a Piedimonte e un altro a Cighino, oggi Čiginj, vicino Tolmino.

Le condizioni igieniche erano pari a quelle dei più tragicamente famosi lager nazisti. Soltanto tra Visco e Gonars si arrivò a contenere quasi 10mila prigionieri, ridotti alla fame, invasi da pidocchi e malati: “Dal 15 dicembre 1942 al 15 gennaio 1943 ne sono morti 161. In media muoiono 5 persone al giorno” scriveva il padre salesiano Tomec in una sua lettera del febbraio ’43, riportata dalla storica Alessandra Kersevan. Tra chi venne internato a Poggio ci fu Ljubka Šorli, celebre poetessa e moglie del martire goriziano Lojze Bratuž, trucidato dai fascisti nel '37: era "colpevole" di aver cantato in sloveno. La sua consorte, invece, venne presa nel 1943. "Il primo di aprile - scriverà una volta finita la guerra -, alle due di notte, sento un camion fermarsi davanti a casa. Spaventata salto giù dal letto, sento, lo so, cosa ciò significa".

A Sdraussina passarano 2mila prigionieri. Tra chi si batte da anni per ricordare quel capitolo della storia italiana, ancora oggi troppo ignorata, c'è Ferruccio Tassin: "Siamo alle soglie dell’80° anniversario della invasione fascista della Jugoslavia (6 aprile 1941) - ha scritto - e siamo alla vigilia della giornata della memoria. Facile per i politici italiani andare in un campo di concentramento nazista (o parlarne). Meno facile venire in un campo di concentramento nostrano (o parlarne), di quelli tutti italici, di pura marca fascista, con ascendenza ideologica nazionalista. Qui si preferisce glissare e, salvo che in pochi casi, alzare il tappeto del tempo, scoparvi rapidamente polvere e sudiciume, e lasciare che tutto cada, mettendoci magari una lapide".

"La relazione della commissione mista di storici italo-slovena - prosegue - per la valutazione della storia di queste nostre particolari terre di confine è stata diffusa solo da associazioni: Icm di Gorizia, Concordia et Pax di Gorizia e Nova Gorica, il Centro “Gasparini” di Gradisca. Tenebra, nel resto d’Italia. Meno di nulla sui libri di testo scolastici. A Visco, c’è uno di quei campi, intatto: certo non si pretenderà che rimangano le tende e le baracche, ma una significativa parte di superficie e stabili esistono, e per di più vincolato dalla Soprintendenza, che ha fatto egregiamente il proprio dovere. Perché non si coglie l’occasione per valorizzare questa rarità della storia, per di più in un luogo per cinque secoli sul confine tra mondo latino e slavo, tedesco e ungherese?".

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