DAL FESTIVAL
Gaza 600 giorni dopo: le riflessioni di Gad Lerner ospite di èStoria

Il giornalista e saggista accolto al Teatro Verdi in conversazione con Antonio Di Bartolomeo. Lerner: «Non so se Israele arriverà a cent'anni, si è messo in pericolo».
Dopo il 7 ottobre sono oltre 600 i giorni di guerra nella Striscia di Gaza, ormai ridotta alla fame in una prigione a cielo aperto sottoposta a continui bombardamenti. «Pensavo che questa guerra sarebbe finita – interviene Gad Lerner in dialogo con Antonio Di Bartolomeo – invece è diventato il conflitto più lungo, oltre che il più sanguinoso per il popolo palestinese». L’incontro nell’ambito di èStoria dedicato alle “Città” si è svolto nella tarda serata di ieri in un teatro Verdi gremito, a riprova che le democrazie occidentali mostrano ancora volontà di prendere posizione.
Partendo dal saggio “Gaza. Odio e amore per Israele” edito da Feltrinelli lo scorso anno, l’autore ha riflettuto sul conflitto in corso, criticando aspramente l’operato del governo. «Nella tragedia è meglio stare zitti o parlare? Il mio maestro Alexander Langer mi diceva “Vai laggiù, comincia a organizzare incontri di dissenso”. Ma per questo che stiamo vivendo, o la mia è una vita sprecata oppure è una totale dichiarazione di fallimento». Una tragedia innanzi alla quale Lerner comincia a nutrire dubbi sulla sopravvivenza stessa dello Stato d’Israele. «Non so se arriverà a cent’anni – riflette – perché si è messo in un pericolo terribile. Anche quando ha decapitato i vertici di Hamas, illudendosi di aver guadagnato maggior sicurezza, in realtà ottenendo soltanto ulteriore isolamento».
Mentre quella che Papa Francesco ha definito «terza guerra mondiale a pezzi» è in stallo anche nel cuore dell’Europa, la nuova arma di guerra impiegata a Gaza è quella subdola e atroce che consuma lentamente: la mancanza di cibo. A rischio carestia è oltre il 93% della popolazione infantile, alla quale manca persino il bene più prezioso che è l’acqua. È la strategia senza scrupoli del governo Netanyahu, che va a sommarsi alla “logica” delle bombe in risposta ai 58 rapiti da Hamas, di cui forse restano in vita appena venti. Si chiamava Yaqeen Hammad, l’undicenne influencer che cercava di «portare un po’ di allegria fra i bambini», qualche giorno fa vittima del bombardamento su una scuola. Stesso atroce destino toccato in sorte ai fratellini Al Najjar, figli della pediatra di Khan Younis uccisi sabato. Ma la Storia, si sa, non si ferma ai “numeri”. Va oltre i nomi dei bambini che con gli occhi attoniti hanno lasciato questa vita, diffondendo odio fra le generazioni a venire.
«Trump aveva imposto il cessate il fuoco, ma il giorno in cui Netanyahu ha saputo di Witkoff che ha incontrato Hamas senza gli israeliani, ha ripreso a bombardare. Adesso è più difficile pensare a uno Stato di Palestina senza che Hamas ne faccia parte. Ma Hamas è una sciagura, per il popolo palestinese. E il 7 ottobre non è la data della rivoluzione, ma quella più funesta per i palestinesi, che non avevano mai avuto 50mila vittime in un anno». Un numero sul quale l’organizzazione paramilitare sembra rispondere immolando ulteriori figli. «L’altro giorno il portavoce di Hamas ha rilasciato una dichiarazione, in cui affermava che per ogni combattente che muore le donne avrebbero generato altri martiri». Cifre alla mano, dal fatidico 7 ottobre sono nati 50mila bambini.
«Questa è la loro logica – afferma Lerner – io provo un senso di fratellanza verso quei coraggiosi palestinesi che manifestano contro Hamas, perché sono in grado di guardare al futuro. La domanda da porsi è come vincere il fanatismo che sequestra le grandi fedi religiose. Con la sola forza? Questa è l’idea della destra israeliana, che ritiene la pace impossibile. L’occupazione militare, che corrompe chi la esercita, è andata avanti per 58 anni. Ma non si può tenere un coperchio s’una pentola in ebollizione, perché prima o poi salta per aria. Quest’idea di prendere tempo ha in sé qualcosa che non può funzionare».
Finché la soluzione dei “due popoli e due Stati” rimarrà un’utopia non potremo pensare a un futuro di tolleranza e convivenza. Ma dal governo israeliano inizia a trapelare lo spettro della deportazione. Lo spostamento di una popolazione allo stremo secondo il quotidiano Haaretz viene sostenuto dall’82% degli israeliani, il 47% dei quali convinti sia lecito uccidere i palestinesi. «Una parte dell’opinione pubblica avrà pensato che Israele stia facendo il lavoro sporco anche per noi. Qual è l’alternativa? Il problema dei “due popoli e due Stati” è complicato da realizzare, con i coloni insediati in Cisgiordania, alcuni dei quali sionisti, fanatici ebrei e cristiani. Ma è l’unica soluzione razionale, e se oggi appare lontana è perché sono i capi di governo a non volerla».
Un punto di non ritorno dal quale il resto del mondo deve necessariamente ripartire, come accadde per la nascita dello Stato di Israele del 1948. Per un cessate il fuoco immediato e soprattutto un blocco permanente ai nuovi insediamenti ebraici, di cui nelle ultime due settimane sono stati approvati 22 nella sola Cisgiordania. «Restiamo umani», soleva concludere nei suoi articoli l’attivista Vittorio Arrigoni, prima di finire ucciso per mano di un gruppo jiādista. Nel nome della pace è necessario allora superare l’impasse, perché il più grande genocidio della storia dell’umanità, perpetrato contro coloro che oggi mostrano il pugno contro un popolo inerme, insegna che ogni guerra è sempre ingiusta e disumana.
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