DAL FESTIVAL
Federico Rampini e la sua New York a èStoria tra opacità e persistenti splendori

Protagonista di uno degli ultimi appuntamenti della rassegna, lo scrittore e giornalista descrive una città ancora attrattiva e confessa, «ho avuto una vita fortunata e fatto esattamente ciò che desideravo, ma molte sono state le rinunce che ho scontato».
Cala il sipario su èStoria, con uno degli ultimi appuntamenti dell’edizione intitolata alle Città dedicato a quella metropoli che ha giocato e continua a rivestire un ruolo iconico nell’immaginario comune. Oltre 5 milioni di abitanti in ciascuno dei cinque boroughs che la compongono, l’immagine patinata di New York è ultimamente opacizzata dall’ondata di proteste scatenate dall’amministrazione Trump. Ma a smentire quella che sembra una solida equazione giungono subito le parole di Federico Rampini, tanto recettivo nel suo essere newyorchese da ormai sedici anni, quanto critico verso una città e un Paese di cui riesce a cogliere con schiettezza tutti gli umori più sinceri.
Incalzato dalle domande di Francesca Terranova, di fronte alla platea del Verdi lo scrittore e giornalista delinea un profilo quanto più possibile imparziale di una società che sta scontando le irruenze di un presidente le cui idee hanno in realtà lontane origini nell’atteggiamento di quanti l’hanno preceduto, fino a risalire al momento dell’indipendenza delle colonie dalla madrepatria britannica.
«Vi rassicuro: potete venire a visitare New York senza essere arrestati all’aeroporto: ho la fortuna di vivere a Central Park e, durante i diversi ponti di primavera, lì si sentiva parlare sono italiano». Il clima virulento, le proteste costanti che minano la sicurezza della città non si percepiscono per strada, dove il problema più pressante è il carovita che, tuttavia, sembra non impattare molto sui flussi turistici.
Quella che traspare in Europa è, secondo Rampini, un’immagine distorta degli Stati Uniti basata sulla traduzione pressochè letterale di certa stampa antitrumpiana, fortemente schierata nell’evidenziare ciò che non funziona senza contestualizzarlo al di fuori del periodo che si sta vivendo. Persiste una sorta di caricatura, secondo Rampini, per cui l’America è un luogo di bieco sfruttamento, dove non esiste welfare: ma allora perché tanti europei continuano a raggiungere l’altra sponda dell’Oceano?
Al di là delle strumentalizzazioni, New York continua a catalizzare l’attenzione, a mantenere la sua aura simbolica di richiamo per la realizzazione di quei sogni che poi, nella quotidianità, vanno a cozzare contro le inefficienze di un sistema arrugginito, dove gli aeroporti così come la metropolitana rivelano le proprie debolezze giustificando le continue lamentele degli abitanti. «La città ha attraversato periodi molto più tragici, cinematograficamente testimoniati da pellicole come Taxi Driver. La vita quotidiana non è cambiata dopo Trump che è certo un provocatore ma non un interventista e a essere onesti bisogna valutare che i suoi predecessori in politica estera hanno collezionato dei disastri».
E sono proprio alcuni atteggiamenti e condotte degli ultimi decenni ad aver regalato la vittoria al tycoon, a cominciare dalla cultura woke che, spaventando i gruppi etnici più conservatori di fronte al dilagare dell’ideologia transgender, ha regalato i loro voti ai repubblicani. Il tutto, mentre si è venuta a spaccare l’omogeneità del melting pot che ha reso grande l’America e New York stessa, cedendo alle richieste di diritti dei migranti accolte in nome del senso di colpa innescato dalla povertà dei loro paesi di origine.
Gli Stati Uniti continuano dunque ad avere una capacità attrattiva particolare anche se, a detta di Rampini, attualmente per capire dove andrà il mondo bisogna guardare a centri come Shangai, Singapore, Dubai. «Ho avuto una vita fortunata, ho potuto fare esattamente ciò che desideravo: girare il mondo per raccontarlo. Certo però che nella vita non esistono pasti gratis per cui ho dovuto fare molte rinunce. Ciò che mi ha restituito l’America è un rapporto più facile con l’Italia, più vicina rispetto a quando ho vissuto in Cina. Ma se pensiamo a livello europeo – chiosa il giornalista – al Vecchio Continente gli Stati Uniti servono perchè ci fanno sentire superiori».
Foto Sergio Marini
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