DAL FESTIVAL
èStoria, l’israeliano Benny Morris interrotto da alcuni attivisti pro Palestina

Confronto ieri, 31 maggio su democrazia, sionismo e conflitto tra Israele e Palestina. Di tristi vedute il futuro dei palestinesi secondo Claudio Vercelli.
“Storia, identità e futuro di Israele” sono stati i temi centrali del dialogo tra lo storico israeliano Benny Morris e il contemporaneista Claudio Vercelli, ospiti sabato 31 maggio a Gorizia, nell’ambito del festival èStoria. L’auditorio della Cultura Friulana ha fatto da ribalta in un confronto ricco di tensione e profondità, in cui le metamorfosi della società israeliana sono state analizzate nel loro intreccio inscindibile con il conflitto israelo-palestinese, la crisi della democrazia e le trasformazioni interne allo Stato ebraico.
La moderatrice Chiara Fragiacomo ha ripercorso i tratti fondativi dello Stato di Israele, nato nel 1948 come democrazia parlamentare priva di una costituzione formale ma regolata da leggi fondamentali. Un assetto in piedi da almeno settant’anni, cosa che, secondo lo storico Benny Morris, «è un miracolo per una serie di motivi: la maggior parte degli ebrei che andarono in Israele dopo il 48 venivano da paesi senza democrazia – citando paesi del Nord Africa e del Medioriente – l’altra metà arrivò dall’Europa dell’est, dove pure non si era mai vista una tradizione democratica».
Questo “miracolo” si è però eroso negli anni: dal 1996 in avanti, con l’ascesa di Benjamin Netanyahu, Israele ha imboccato una deriva personalistica, in cui il potere si è progressivamente concentrato nelle mani del leader. «La base elettorale di Netanyahu corrisponde a ebrei che provengono da paesi arabi, e anche da parte di persone che vogliono minare la democrazia». La corrosione di questa è, per lo storico, legata anche all’occupazione dei territori palestinesi, dove viene negato l’accesso ai diritti politici fondamentali. A questa si somma un restringimento delle libertà civili interne, in particolare per gli arabo-palestinesi; «gli oppressi non hanno né diritto né potere e questo è un problema anche per il futuro della democrazia israeliana». Si aggiunge poi l’approvazione, nel 2018, della legge sullo "Stato-nazione del popolo ebraico", che definisce Israele come Stato esclusivamente ebraico e che ha sollevato forti dubbi sulla tenuta del suo carattere democratico e inclusivo.
Dal canto suo, Claudio Vercelli ha offerto una lettura storica e politico-culturale delle trasformazioni di Israele, definendola «nazione tra le nazioni, che ha subito dei cambiamenti suoi e propri nel corso degli anni, così come le forme politiche-istituzionali hanno subito mutamenti a loro volta». In un complesso gioco di ombre, Israele non può essere disgiunta dalla «storia e dalle dinamiche della realtà mediorientale, quindi bisogna anche rifarsi alla realtà palestinese come tale». La sua analisi ha toccato anche la “guerra delle parole” in corso: termini come “genocidio”, particolarmente usato al giorno d’oggi, assumono spesso una funzione simbolica definitiva, ma rischiano di offuscare la comprensione della realtà. A suo avviso, il dibattito politico odierno è sempre più segnato da una semplificazione estrema: si rinuncia all’analisi e al confronto di idee, sostituiti da formule rigide e identità contrapposte, che rendono difficile comprendere la complessità dei fatti.
Profonda è stata l’accusa rivolta a Israele, che pare voglia assumere una forma di democrazia “etnico-identitaria”, dove l’appartenenza culturale prevale sulla parità dei diritti. «Un conto è la democrazia e un conto è una democrazia che cerca di assumere una natura pienamente etnica. Questo significa assumere processi di cittadinanza individuati: le democrazie moderne esistono proprio perché cancellano questo processo» sono state le parole di Vercelli. Sebbene la Palestina esistesse già quando i primi ebrei vi migrarono agli inizi del Novecento, «il nazionalismo palestinese è nato tardi rispetto ad altre realtà e fatica ad affermarsi: è davanti a oggettive difficoltà» come la totale mancanza di rappresentanza politica, un’«acefalia politica» che non è un problema emerso di recente.
Chiara Fragiacomo ha in seguito invitato i relatori a riflettere sulla genesi del sionismo e sulla sua evoluzione. Morris ha ricostruito le fasi iniziali del movimento sionista, nato nel 1880 con un migliaio di persone, aumentate fino a 10mila durante le prime migrazioni verso la Palestina ottomana, in cui speravano di costruire uno stato tutto per sé. Nel 1937 però, quando il governo britannico propose la ripartizione del territorio tra le due popolazioni, la maggioranza era ancora araba, quella ebrea si aggirava tra 15-20%: «i sionisti rinunciano alla pretesa di avere tutto il territorio palestinese». Ma perché accettare un simile compromesso se volevano tutto? Gli ebrei si trovavano «in una situazione difficile, nel mondo crescevano i totalitarismi e si capisce che sarà difficile creare uno stato totalmente ebreo: si intuisce cosa accadrà, perché sono già iniziate le rappresaglie contro gli ebrei in Europa».
Anziché parlare di «sionismi, direi che si tratta di più correnti politiche all’interno del sionismo, destra e sinistra» sostiene Morris. Il primo premiere di destra salì al potere nel ’77 e dopo di lui altri, fino al presente con Netanyahu. «Quindi è la destra a essere sionista, che non vuole gli arabi e vuole uno stato tutto per sé».
L’incontro è stato inaspettatamente interrotto da un paio di attivatisi pro-Palestina, che si sono distinti nella platea alzandosi in piedi, bandiera della Palestina dispiegata insieme a uno striscione che recava lo slogan “free Palestine”. «Ci scusiamo per le modalità di interruzione – hanno iniziato – ma di fronte a diciotto mesi di ciò che riteniamo un genocidio, pensiamo che il bon ton possa essere sorvolato. Pensare che la pulizia etnica sia qualcosa di ragionevole non è un concetto democratico. Dov’è una persona palestinese su questo palco? Non c’è, perché Benny Morris pensa che debbano essere eliminati». Tra gli schiamazzi generati, si sono distinte grida d’appoggio e dissensi. I giovani non sono stati allontanati dalla sala e, dopo aver seguito l’incontro svoltosi secondo il programma, hanno posto una domanda a Benny Morris.
«Abbiamo una domanda per Morris, che è uno storico israeliano, ma è anche una persona che è stata accusata più volte di sostenere un suprematismo israeliano e razzista» così ha introdotto la sua domanda il ragazzo. «In un’intervista del 2004 lei ha ribadito che le operazioni di pulizia etnica palestinese, durante la Nakba del 1948, erano giustificabili e necessarie per la creazione di uno stato sionista e israeliano. Ritiene che sia ancora così?». Morris ha dunque risposto contestualizzando quelle dichiarazioni nel quadro della seconda Intifada, sostenendo che nel 1948, in un momento di attacco coordinato da parte dei paesi arabi, l’espulsione di alcuni abitanti arabi da villaggi palestinesi fu considerata una misura necessaria alla sopravvivenza dello Stato ebraico nascente. «La reazione degli israeliani all’epoca è comprensibile, cioè l’espulsione di alcuni per evitare il genocidio degli ebrei da parte degli arabi. Oggi la situazione è completamente diversa».
Sul tema delle prospettive future, Vercelli ha mostrato grande preoccupazione: «il futuro è pessimo in queste condizioni. In uno scontro di forze i risultati sono prevedibili: se il conflitto rimane questa cosa qua io credo il risultato sarà l’espulsione della popolazione palestinese. Il 7 ottobre è stato l’acme di una situazione che dagli anni ’90 è andata solo peggiorando». Quel giorno del 2023 ha rappresentato un punto di non ritorno in un processo di deterioramento già in atto da decenni, segnando l’emersione definitiva di una polarizzazione violenta, che affonda le radici in una lunga storia di tensioni e brutalità reciproche, e oggi è esasperata da forze politiche sempre meno disposte al compromesso e sempre più orientate a negare l’esistenza dell’altro.
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