DAL FESTIVAL
èStoria 2025 parte con il ministro Giuli: le città al centro del festival cittadino

L’intervento di Ezio Mauro apre l’edizione dell’anno della Capitale Europea della Cultura. Spazio all’Europa delle città e nuovi imperi.
Nell’anno della capitale europea della cultura non poteva che essere speciale anche l’inaugurazione del XXI festival èStoria, celebrata ufficialmente al Teatro Verdi dal Ministro della Cultura Alessandro Giuli. «Se siamo giunti alla XXI edizione di questo festival significa che c’è davvero qualcosa di potente – così il Ministro – e perché c’è un’amministrazione comunale che lo sostiene. Sono separato da casa da 669 chilometri, ma qui a Gorizia mi sento a casa. Sono reduce dalla conferenza su Michestaedter, che rappresenta la personificazione di questo rapporto osmotico tra Gorizia e Nova Gorica. Gli eventi non si esauriranno qui, perché questa è una delle città più vive culturalmente».
«Ossola ha saputo elevare la notorietà di Gorizia – ha rimarcato dal canto suo il vicepresidente della Regione Mario Anzil – attraverso un festival sulla Storia all’apparenza difficile, ma affascinante. Con un tema che riguarda le città del passato e del futuro, che è necessario conoscere attraverso il presente». Concorde il primo cittadino Rodolfo Ziberna, che ha voluto ringraziare Giuli per il sostegno finanziario a Go!2025. «Stiamo seguendo da anni, questo festival, e siamo lieti che si sia allargato oltreconfine», ha dichiarato il vicesindaco di Nova Gorica Anton Harej. «Conservare di anno in anno questo festival dimostra passione – è intervenuta la presidente della Fondazione Carigo Fvg Roberta De Martin – e volontà di cucire insieme le anime della nostra terra». Non sono mancati poi i ringraziamenti da parte del presidente Adriano Ossola, che ha posto l’accento sul sostegno congiunto di enti e sostenitori. «ÈStoria è uno sforzo corale – ha evidenziato – e il festival è riuscito a evolvere mantenendo in risalto la bellezza di Gorizia».
A seguire si è svolto l’incontro “L’Europa delle città e i nuovi imperi” – realizzato con il sostegno di Amga Energia & Servizi Gruppo Hera – durante il quale hanno conversato i giornalisti Ezio Mauro e Francesco De Filippo. «Ezio Mauro è una guida – ha ammesso il giornalista dell’Ansa – ha diretto La Stampa, poi dal ’96 La Repubblica, ereditandola da Eugenio Scalfari». La riflessione si è incentrata sui cento giorni dell’amministrazione Trump, durante i quali è stato del tutto ribaltato l’assetto precedente.
«Ci ritroviamo in una fase difficile da interpretare, in cui il mondo sembra sottosopra», ha spiegato Mauro. Un momento storico in cui i valori stessi dell’Occidente vengono messi in discussione, evidenziandone i conflitti interni. Un’America lontana dalla mitica “città sulla collina” coniata da John Winthrop e ribadita da John Kennedy o Ronald Reagan, del tutto inattesa. «Quella città è completamente cambiata – sottolinea – e la stessa vittoria elettorale di Trump è avvenuta partendo da un programma vendicatorio e rivoluzionario». Considerando liquidato il partito democratico, l’avversario principale del nuovo governo è la democrazia liberale, vista come «un sistema di lacci e lacciuoli che impediscono al leader di esprimere fino in fondo la sua carica sovrana». Una democrazia che nell’ottica trumpiana appare «vecchia, costosa, lenta, faticosa e scarsamente produttiva», da cancellare attraverso quella che i russi chiamano “verticale del potere”, mettendo in contatto l’elettore con l’eletto. «Non possiamo non ricordare Mussolini – ribadisce – secondo cui “il secolo della democrazia è finito. Lo Stato di tutti diventerà lo Stato di pochi».
Un sottile equilibrio sul punto di spezzarsi, in uno scenario di guerra senza risoluzione nonostante le promesse sciorinate in campagna elettorale. «La pace è più conveniente della guerra – osserva Mauro – tuttavia la parola “pace” è un assoluto che impedisce di comprenderne appieno il concetto. Occorre compiere un gesto di responsabilità, valutare le proposte. Trump ha sostenuto che sarebbe stato in grado di portare la pace in poco tempo, con un approccio niente affatto politico. Non ha imputato a Putin la responsabilità di aver causato il conflitto, né ha distinto l’aggressore dall’aggredito. Se avesse assunto i valori dell’Occidente e della democrazia, avrebbe riconosciuto a Putin di aver violato le regole di convivenza, mentre gli ha concesso la Crimea e i territori occupati». Sul palcoscenico mondiale il presidente Zelensky e l’Onu sono equiparati a «sudditi» senz’altra scelta che conformarsi.
«La pace è preferibile a qualunque guerra, abbiamo detto. Ma questo potrebbe essere l’inizio di un nuovo ordine mondiale. Una pace fondata sull’abuso e sul sopruso è davvero il lascito migliore che possiamo rendere ai nostri figli?». Un interrogativo che apre crepe nei granitici valori occidentali e scuote le coscienze. «Avevamo creduto che la democrazia potesse essere egemone, l’unica religione superstite dopo la morte delle ideologie. Ci sbagliavamo. Credevamo che il fatto si essere figli del benessere ci rendesse immuni, mentre un virus visibile solo al microscopio elettronico ha messo in crisi questa certezza, estendendo la minaccia di morte all’intera umanità». Una vulnerabilità di fronte alla quale il mondo si è d’improvviso ridestato, come da un lungo sonno. Simile al processo evolutivo, la democrazia va trasformandosi in una creatura della quale non è ancora dato vedere il volto. «È bastato l’attacco alle Torri Gemelle – prosegue – per aprirci gli occhi. Putin non cerca un’alleanza, e in questa fase d’incertezza in cui il ciclone Trump mette in crisi tutti i punti fermi, la Cina cerca spiragli nel suo rapporto con Taiwan».
A questo si somma l’attacco ad Harvard, che colpisce la forza ribelle rappresentata dagli studenti e al contempo mina l’istituzione culturale. «Come se tutto ciò che è sapienza ed esperienza fosse frutto di mistificazione – argomenta – quasi un falso sapere. Siamo a un passo dall’affermare che l’ignoranza è garanzia d’innocenza». Un consenso ottenuto dai così detti “forgotten men” e dagli imprenditori della Silicon Valley, agli occhi dei quali l’Europa appare «un guazzabuglio», un cumulo di regole da spazzar via. «Ha ragione nell’affermare che ci siamo pagati la difesa con il denaro americano, ma non può presentare i conti a posteriori come ha fatto per le terre rare, a risarcimento del sostegno di Biden all’Ucraina». In questo senso siamo chiamati alla responsabilità di autodifesa, da attuare senza l’ombrello americano.
«Quando nel 2012 intervistai Putin, rivelò di non rimpiangere il comunismo. Disse di considerarsi un conservatore. Noi potremmo definirlo un reazionario imperialista, in quanto rimpiange l’autorità che il sistema sovietico era in grado di trasmettere. Oggi le mappe mentali della Russia e dell’Europa sono divaricate. L’Europa ha cercato lo sviluppo sul mare, la Russia si è chiusa cercando sicurezza nella terra: due concezioni completamente diverse. La visione europea può essere soltanto una: la terra delle democrazie dei diritti e delle istituzioni. È necessario che l’Europa compia il salto, scrollandosi di dosso il peso dell’unanimità. Secondo Putin – si accinge a concludere Mauro – “non è detto che la democrazia debba essere liberale”. Modelli di “pseudodemocrazia” che ricordano certe meravigliose conchiglie sulla spiaggia, dove dentro magari l’organismo sta morendo. Ma la democrazia è una costruzione umana, e come tale è fragile e al contempo potente. E dipende da noi».
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