Da Gorizia a Israele, Chiara Conti racconta il conflitto ad Haifa: «Qui non sono tutti pazzi estremisti»

Da Gorizia a Israele, Chiara Conti racconta il conflitto ad Haifa: «Qui non sono tutti pazzi estremisti»

L'intervista

Da Gorizia a Israele, Chiara Conti racconta il conflitto ad Haifa: «Qui non sono tutti pazzi estremisti»

Di Ivan Bianchi • Pubblicato il 20 Giu 2025
Copertina per Da Gorizia a Israele, Chiara Conti racconta il conflitto ad Haifa: «Qui non sono tutti pazzi estremisti»

La giovane, che da anni vive nello Stato mediorientale, nel parlare della situazione e dei popoli che vivono è un fiume in piena. La lunga intervista per Il Goriziano.

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Dal 2019 Chiara Conti, nativa di Gorizia, vive in Israele. È arrivata sulle sponde del Mediterraneo per completare il suo dottorato, decidendo però di rimanervi. Negli ultimi giorni la situazione ad Haifa, dove si trova, è degenerata. Ne hanno raccontato ampiamente i media internazionali ma la viva voce di chi in quelle zone ci vive – e da anni – è una testimonianza lampante di una situazione non semplice che non migliora, anzi.

La sentiamo grazie a WhatsApp e le chiediamo non solo come sia l’emergenza nel breve raggio ma anche la vita a lungo termine. Com’è vivere in una città che è stata colpita da missili negli ultimi giorni? C’è preoccupazione? Come sta reagendo la popolazione? L’emergenza è sentita?

In effetti, è un paradosso vivere in un posto così dilaniato nella storia in cui la base di ogni conversazione ed incontro inizia con un "shalom" in ebraico e "salam aleykum" in arabo, che significa "pace". Ed eccoci coinvolti in un’altra delle ondate di violenza che hanno solcato le vicende di queste zone da che l’uomo ha memoria. Solo che i mezzi di distruzione stanno diventando sempre più micidiali. In generale, si vive alla giornata, proprio al momento, in un posto del genere colpito da missili. Le sirene potrebbero scattare da un momento all'altro. In questi ultimi giorni gli attacchi si sono verificati generalmente di sera-notte-mattina prestissimo. Nessuno dunque dorme notti tranquille, ultimamente. Per quanto riguarda le reazioni, la popolazione si divide: c’è chi è abituato, o desensibilizzato a questi tipi di situazione di emergenza estrema (naturale difesa psicologica) in cui Israele purtroppo si è sempre trovata nel corso della sua storia, a intermittenza, e dunque continua a vivere e a portare avanti le sue attività per quanto è possibile, ed altri che invece si fanno prendere più dal panico e quindi se ne stanno relegati in casa, per essere il più vicino possibile agli shelter. Ma in ogni caso, ci si potrebbe trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato, dunque ciascuno si fa i propri calcoli: chi dice "beh, almeno avrò vissuto la mia vita", chi invece considera "beh, almeno ho cercato di mantenermi più al sicuro possibile". Le persone che sono state colpite letalmente sono quelle che non erano al riparo, per un motivo o per un altro. Ad esempio, a Tamra, un padre che aveva raggiunto il bunker si è accorto che una delle figlie non era presente, è uscito da lì per cercare la ragazza, ed il missile ha colpito letalmente entrambi. Si può morire non solo per impatti diretti di missili, ma anche per i frammenti che cadono dopo che questi sono stati intercettati dai sistemi di difesa aerei, oppure addirittura per l'onda d'urto che si sprigiona conseguentemente ad un impatto. È già spaventoso di per sé vivere in un contesto del genere (in cui comunque riceviamo delle notifiche addirittura 20 minuti prima dello scatto delle sirene), ma non posso nemmeno immaginarmi come se la vive la gente il cui paese non ha sistemi di difesa aerei: mentre i sistemi israeliani hanno un'efficacia piuttosto alta (con l'Iron Dome che intercetta più dell'85% di missili), lì sì che i missili cadono sul serio. E in questi giorni vediamo, sia a Tel Aviv, che a Haifa, ma non solo, l'impatto distruttivo di missili non intercettati. Dunque, l'emergenza è sentita, la gente è costantemente all'erta, ovviamente spaventata per le distruzioni che osserva intorno a sé e per la minaccia alle loro vite, ma per chi può e se la sente, la vita continua!

Tu come la stai vivendo? Come vedi la situazione per il futuro?

Vivendo qui da sei anni, ed avendo passato gran parte della mia vita adulta in questa terra, che ho iniziato molto presto ad amare profondamente, e frequentando soprattutto gente locale, devo ammettere che ho assorbito questa sorta di resilienza israeliana, forse questa "desensibilizzazione", che alcuni potrebbero leggere come coraggio, altri come sconsideratezza. Quindi io faccio parte di quella fetta di popolazione di cui parlavo prima, che cerca di continuare con le proprie attività e lavoro, sempre però tendendo un orecchio e cercando di leggere costantemente il polso della situazione. Scena terrorizzante ma su un’altra scala rispetto alla paura adrenalinica delle esplosioni, è vedere la mia comunità, ragazzi come me che condividono le mie stesse passioni e che frequento regolarmente, trasformarsi in soldati. Improvvisamente hanno la responsabilità della difesa del proprio paese, e lo vedi nei loro occhi. E sono magari costretti ad assistere a scene che nemmeno ci possiamo immaginare, che segnano per la vita. Un mio caro amico, ad esempio, era riservista per molti mesi all'inizio della guerra, da ottobre 2023. È un tecnico dell'aeronautica militare e si assicura che la comunicazione fra piloti e torre di controllo funzioni sempre. Più volte gli è capitato di ascoltare in tempo reale dei suoi colleghi morire. E di storie simili si sente costantemente. Esperienze che nessuno, ma a maggior ragione ragazzi giovani, dovrebbe vivere.

Una convinzione errata che sento spesso è che i riservisti vanno tutti al fronte imbracciando le armi. Non corrisponde alla realtà. C'è, sì, gente che combatte, ma i ruoli che si possono ricoprire nell'esercito sono dei più disparati: da tecnici del sistema di intercettazione aerea, a paramedici, a soccorritori che tirano fuori coloro che rimangono seppelliti sotto le macerie, a responsabili della logistica negli ospedali. In ogni caso, tra i soldati che combattono, sempre più sono gli obiettori di coscienza (non solo di sinistra) che si rifiutano di partecipare alle riserve militari o che disertano, soprattutto viste le dinamiche della guerra iniziata nel 2023, che porta avanti operazioni che evidentemente eludono la tabella di marcia dichiarata con l’invasione dei terroristi di Hamas. Durante la prima guerra del Libano nel 1982, è stato fondato il movimento di obiettori di coscienza “There is a limit” (“C’è un limite”) e che ora sta registrando la maggiore ondata di rifiuti di soldati mai visti in decadi.

La situazione per il futuro...difficile a dirsi. Parlando da profana (sono una microbiologa marina), mi limiterò prima di tutto a rimandare alle voci, tra le più autorevoli, sagge e competenti sulla geopolitica in Medio Oriente, di Paola Caridi e Anna Momigliano, e poi a condividere solo alcune mie riflessioni. La domanda è più che legittima nel senso che non mi pare ci sia un piano ragionato per un eventuale futuro sicuro, che veramente possa assicurare la tranquillità degli abitanti e dei vicini. È come se Netanyahu avesse aperto tutti i fronti che potesse aprire, forte anche del sostegno determinante degli Stati Uniti e dell'atteggiamento tendenzialmente guerrafondaio di Trump. Tutte queste azioni danno ulteriori colpi all'equilibrio già precario delle dinamiche medio orientali, alimentando odio, frustrazione, sete di vendetta e deumanizzazione dell'altro, che in realtà è un processo già in atto anche in tempi di pace, purtroppo (e.g. mancanza di comunicazione o di contatti tra ragazzi israeliano-ebrei e arabi nelle scuole). Sempre più insediamenti israeliani fioriscono all'interno dei territori palestinesi, (22 nuovi insediamenti sono stati approvati a maggio di quest'anno in Cisgiordania) e i coloni sono solitamente religiosi o ultraortodossi ebrei che spesso (per esperienza personale) non rispettano nessuno che non sia simile a loro, nemmeno altri gruppi di ebrei che differiscono per tradizioni ed origine. Questo tipo di gente ha sempre più peso e potere al governo (alcuni di loro ricoprono cariche politiche), anche in un contesto in cui molti israeliani moderati o hanno già lasciato il paese, o pianificano per l’immediato futuro un trasferimento all’estero con le loro famiglie, perché non vogliono questo tipo di Israele per i loro bambini, e neppure rischiare la vita per un sacrificio che non ha senso o valore. Infatti, nel 2024, quasi 90 000 israeliani hanno lasciato il paese: un incremento del 50% rispetto al 2023. E questo è un sintomo significativo del malcontento degli abitanti stessi, così. come lo sono le proteste massive che si tenevano settimanalmente in diverse città israeliane, come Tel Aviv e Haifa, a cui partecipavano migliaia di cittadini frustrati per il regime, le ingiustizie, la pratica e la narrativa bellica.

Hai mai pensato di cambiare temporaneamente residenza in questo periodo?

Potrebbe suonare illogico, ma è una decisione difficile da prendere. I cieli per il momento sono chiusi, ed una possibilità sarebbe quella di varcare il confine via terra o per andare in Egitto oppure in Giordania. Ma per il momento rimango qua a Haifa. Avendo moltissime giovani conoscenze israeliane, mi sento in dovere di rimanere a dare una mano, almeno di essere presente. Allo scoppio della guerra ad ottobre 2023, ho scelto di rimanere qua perché il mio ragazzo, israeliano, era stato chiamato in riserva, così come moltissimi dei miei conoscenti, ed il paese è stato colto talmente impreparato, che sono sorti tantissimi gruppi di volontariato gestiti da civili che davano una mano al sostentamento dei ragazzi in riserva, aiuti alle famiglie, persino all’agricoltura; dunque, mi sentivo più utile qua che in Italia. Sono tornata in Italia per un paio di mesi ad ottobre 2024, quando la situazione con Hezbollah si era scaldata, proprio su Haifa. Ma ora che le circostanze si fanno serie ancora una volta, contro l'Iran, e si respira di nuovo un'aria simile a quella dell'inizio della guerra nel 2023, sento di dover stare vicina almeno alla mia cerchia israeliana (sia ebrea che araba) e non cercare rifugio in Europa. Un' Europa che, nello stesso tempo in cui "condanna" il conflitto in Medio Oriente, continua imperterrita sottobanco con un traffico d'armi fiorente. Con una spesa militare complessiva degli stati europei di centinaia di miliardi di euro solamente nel 2025, ed un incremento di esportazioni di più del 40% da diversi paesi dell’Unione anche verso il Medio Oriente. A questo proposito mi sento di fare una considerazione: inutile compiangere i compatrioti bloccati sotto le bombe se si continua ad investire in azioni del comparto difesa!

⁠La percezione in Italia del conflitto è chiaramente ovattata anche in base al media che si utilizza per informarsi. Cosa noti nel racconto del conflitto che arriva in Italia che diverge dalla realtà?

Basandoci sui media, non solamente in Italia ma dappertutto, abbiamo una visione distorta di ciò che sta succedendo. Qua in Medio Oriente, ma anche nel resto del mondo. È veramente difficile trovare una fonte che sia oggettiva. E purtroppo le vite umane in questi casi sono molto meno preziose di quello che vogliamo credere. Sembrano la valuta di scambio che sbilancia l'opinione pubblica mondiale. Ma queste sono soltanto mie riflessioni. Dunque, io consiglio sempre di attingere a diverse fonti, fonti contrastanti, come in questo caso sia israeliane che iraniane che del mondo arabo (e.g. al Jazeera), giornali occidentali di diversi orientamenti politici, perché le censure di una sono gli highlight dell'altra e così via. Consiglio anche piattaforme come Telegram ed Instagram, per accedere ad informazioni di prima mano su chi questi fatti li vive a distanza di metri, e non passano per le bocche o le penne di scaltri giornalisti. Almeno per avere scatti che riprendono da diverse angolazioni una verità a cui sarà sempre virtualmente impossibile accedere. Il linguaggio usato è molto diverso: ad esempio, parlando di uno stesso fatto, le voci palestinesi lo definiscono un massacro, quelle israeliane invece, legittima difesa per l'esistenza del paese e di "neutralizzazione" di personalità potenzialmente minacciose, con fatalità collaterali. Quello che per uno è una giustificazione ("sotto quell'asilo si nascondeva un terrorista") per l'altro è una denuncia e una condanna ("in questo raid sono state uccise decine di civili"). Questo dualismo di terminologia avviene in continuazione, e bisognerebbe avere un occhio sensibile a coglierlo ed a filtrarlo. Un'altra tendenza, specialmente in situazioni calde del genere, da cui bisognerebbe acquisire una certa immunità, è la ricerca degli elementi più emotivamente impattanti per il pubblico perché, ahimè, il mondo dell'informazione è un mondo di intrattenimento che si consuma. La “sensazione” vende. Non è poi così diverso dal brivido da arena di gladiatori. Purtroppo, non ci giriamo nemmeno più alla notizia di centinaia di morti per un attacco. Diventa un titolo da scrollare col caffè del mattino. E così anche colui che legge le notizie disumanizza coloro di cui si parla in quell'articolo. E rendersene conto è agghiacciante. Soprattutto quando ci si ritrova in mezzo a tali fatti, quando si conoscono i riservisti che muoiono, i parenti di ostaggi, o di soldati diciannovenni che cadono, quando si sente di famiglie arabe ed interi villaggi completamente distrutti a pochi chilometri di distanza.

Tra i messaggi che vorrei arrivassero ai lettori italiani: quello che in genere si percepisce è che tutti gli israeliani siano dei pazzi estremisti, e magari tutti gli arabi coinvolti in questo conflitto siano dei terroristi. Ce ne sono, da entrambe le parti. Ma così come nessuna vicenda è dipinta in bianco e in nero, e ci sono infinite altre sfumature nel mezzo, c’è veramente un numero enorme di persone, palestinesi, o ebrei israeliani o arabi israeliani, moderate, che desiderano soltanto la pace e la convivenza. Queste voci esistono e vanno coltivate, ascoltate, anche se la maggior parte del tempo passano sotto silenzio (non fa "sensazione"). Sono realtà delicate come semini, ed hanno bisogno di tempo e cura (di generazioni) per germogliare e crescere. Il problema sono le colate di cemento sterile che questo tipo di eventi distruttivi si portano dietro.

Tra i vari esempi di realtà che si impegnano per la pace e per il dialogo c'è ECO Peace Middle East, che riunisce scienziati palestinesi, israeliani e giordani impegnati nella gestione condivisa del territorio e delle risorse, come l’acqua, elemento prezioso e quindi potenziale fonte di conflitto o collaborazione. Il rispetto dell’ambiente, spesso dimenticato, viene qui considerato parte integrante della pace sostenibile. Hand-in-Hand è una rete di scuole bilingui e multiculturali dove bambini arabi ed ebrei israeliani crescono e studiano insieme; oggi conta sei scuole frequentate da duemila studenti dai tre ai diciotto anni, rappresentando un modello concreto di educazione inclusiva.

C’è poi The Parents Circle – Families Forum, che riunisce famiglie israeliane e palestinesi colpite dalla perdita di persone care a causa del conflitto: rifiutando la vendetta, queste famiglie scelgono la via del dialogo, per spezzare la catena dell’odio e promuovere un messaggio di riconciliazione. Neve Shalom – Wahat as-Salam, che in ebraico e arabo significa «oasi di pace», è un villaggio che ospita oggi 60 famiglie equamente divise tra ebrei e arabi (musulmani e cristiani); un esperimento concreto di coabitazione fondato sulla pari dignità. Green Action è un’organizzazione israeliana che sostiene il lavoro degli agricoltori palestinesi, aiutandoli a portare i loro prodotti nei mercati israeliani, contribuendo così allo sviluppo economico e a una maggiore integrazione.

La Israeli-Palestinian Science Organization promuove invece la collaborazione tra ricercatori delle due sponde, offrendo un terreno neutro dove la scienza diventa linguaggio comune e strumento di cooperazione. A Gerusalemme, Ir Shalem lavora per una convivenza urbana rispettosa, riunendo professionisti come architetti e avvocati che si dedicano a progetti condivisi tra cittadini arabi ed ebrei, nella città simbolo del conflitto. Infine, anche la cultura fa la sua parte: il Noa’s Ark Festival, ideato dalla cantante israeliana Noa, porta ogni anno sullo stesso palco musicisti israeliani, palestinesi, italiani e internazionali. Nato ad Arona, in Italia, il festival devolve i proventi a organizzazioni di beneficenza attive in Israele, Palestina e nel nostro Paese.

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