La Contea teatro di aspre battaglie, quando gli Asburgo colpirono la Serenissima

La Contea teatro di aspre battaglie, quando gli Asburgo colpirono la Serenissima

U di Uscocchi

La Contea teatro di aspre battaglie, quando gli Asburgo colpirono la Serenissima

Di Vanni Feresin • Pubblicato il 08 Ago 2021
Copertina per La Contea teatro di aspre battaglie, quando gli Asburgo colpirono la Serenissima

Nel Seicento, le truppe croate degli Uscocchi marciarono su Monfalcone. Era l'inizio delle Guerre Gradiscane.

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Nell’autunno del 1615 l’Arciduca d’Austria Ferdinando d’Asburgo, imperatore dal 1619, diede ordine al conte Volfango di Tersatto di marciare con le sue truppe croate (uscocche) dall’Istria nel territorio del monfalconese, appartenente a Venezia, per prevenire gli attacchi della Serenissia in quella zona. Gerolamo Donà, podestà di Monfalcone, informò in data 27 novembre 1615: Heri sera alle due hore di notte, lontano otto miglia di qui s’attrovava quantità di gente nemica a piedi ed a cavallo. Circa al Vespro è arrivato il Signor Governatore Retrese con 40 Cavalli Cappelletti, ma troppo tardi perché al levar del sole fino a mezzogiorno detti Uscocchi a piedi et altri a Cavallo, hanno depridato et abbrugiato cinque Ville di questo territorio coll’occisione di una sola persona menado via buona quantità di Animali grossi et munuti.

Il procuratore di Cividale pochi giorni dopo scriveva: Ho avvisi per via di Graz che sabato passato fosse toccato Tamburo et fatta rassegna di ottocento fanti destinati con presidio in Gradisca et Goritia. Le aggiungo che il foco acceso heri nel territorio di Monfalcone abbruggiò le ville di Redipuglia, Vermegliano, Selz et buona parte de Ronchis.

Con il susseguirsi delle settimane le notizie, anche da parte udinese, divenivano sempre più imponenti, riguardo i continui assalti degli Uscocchi nel territorio del confine tra Austria e Venezia: Si hanno rinforzato le Guardie delle fortezza di Gradisca e Goritia con li soldati delle cernide, havendo anche condotti alcuni pezzi di Artiglieria sopra le mura, e da quel di Gradisca hanno fatto sentire molti tieri più per timore che per altro, standosene con gran custodia. Vogliono molti che il Petazzi che si è trovato nell’impresa d’Istria con un Capitano Francol triestino, soggetto di gran valore et esperienza, siano poi con circa 300 huomeni, sotto sette insegne entrati per il passo della Valle di Doberdò nel territorio di Monfalcone et abbiano abbruggiato le ville e predati animali senza fare offesa, per quel che si sappia, nelle persone, altro che al Prete di Ronchi et ad un Contadino, i quali hanno ricevuto diverse busse.

Gorizia nei primi giorni di dicembre del 1615 era già tutta in armi intimorita et mal provvista con circa doi mille anime, continua il cronista Faustino Moissesso descrivendo la mobilitazione generale: gli scorazzamenti delle bande, l’attrupparsi di gente armata attorno all’ultimo lembo del veneto territorio, affrettarono le ostilità che già a Vienna e a Venezia prevedevansi imminenti: prime avvisaglie, le violenze degli Uscocchi, prezzolati dal castellano del Carso Volfango Frangipane conte di Tersatto, e dai triestini Benevuto Petazzi e Daniele Francol.

Le motivazioni della guerra

Ma Ben presto la biscia si volse a mordere il ciarlatano, così Faustino Moisesso sintetizzò le motivazioni della guerra. Nel primo decennio del secolo XVII, gli Uscocchi infersero tali danni e tante offese alla Repubblica di San Marco che la situazione si fece insostenibile. Si giunse ben presto tra il Senato veneto e la Corte arciducale di Graz allo scontro, prima diplomatico e poi con la campagna di guerra vera e propria svoltasi tra il 1615 e il 1617, lungo tutta la linea di confine da Pontebba alla Dalmazia. Questo conflitto venne definito “Guerra del Friuli” o “Guerre Gradiscane” perché si svolse nella maggior parte sull’Isonzo e intorno alle inespugnabili mura della fortezza veneziana di Gradisca, andata perduta dalla Serenissima già nel 1511 e mai più recuperata. La guerra gradiscana dimostrò che Venezia non aveva mai dimenticato la sua piazzaforte sull’Isonzo e che anche dopo un secolo, e nonostante la fondazione di Palmanova, non si era rassegnata alla sua perdita. La guerra si concluse con un nulla di fatto, Venezia non vinse e gli arciducali non persero, la pace infatti prevedeva che Venezia tornasse nel suo territorio e si riportassero tutte le posizioni alla situazione antebellica.

Gli Uscocchi

La vicenda degli Uscocchi ha una sua parabola che va dal 1520 al 1620, anno della loro dispersione dopo la guerra gradiscana. Il significati della parola uskok è profughi “saltati dentro”. Inizialmente furono milizie al servizio degli ottomani e poi, per varie ragioni ma non religiose, optarono per la sudditanza asburgica e rivolsero i loro attacchi verso i precedenti padroni. Gli Uscocchi saltavano con le loro audaci azioni di qua e di là della frontiera, colpivano e poi si rintanavano, protetti dal limite territoriale dello Stato. Furono sfruttati dagli Asburgo e brutalmente rimossi quando i giochi politici si spostarono altrove. Gli arciduchi d’Austria avevano favorito gli Uscocchi in quanto ravvisavano in loro un argine contro le invasioni dei Turchi, nonché un intralcio sulle vie dei traffici marittimi di Venezia e della pressione militare contro l’Istria e Trieste.

Faustino Moisesso descrive il primo giorno di guerra

Il 18 dicembre 1615 scoppiò la guerra, così racconta Faustino Moisesso: Alli diciotto di dicembre il Generale scrisse al Luogotenente di Udine, co’l quale parimente avevasi maturato questo negozio, e richieselo che la stessa notte mandasse fuori la compagnia de’ cavalli soliti a mantenersi dalla comunità in tempo di guerra, con l’ordine che il seguente giorno innanzi l’alba arrivasse nella campagna detta Modoletti, presso al villaggio di Medeuzza, ultimo confine de’ Veneziani verso lo Stato arciducale; e poscoia al Giustiniano, che seco era in Palma, diede le commissioni di quanto partitamente avesse ad operare. Nel seguente giorno dunque, qualche ora innanzi l’alba giunsero nella predetta campagna Pompeo Giustiniani da Palma con attorno millecinquecento fanti, quattro compagnie di cappelletti e due pezzi di artiglieria; da Udene le bande de gli uomini d’arme, da Cividale Marc’Antonio Manzano con una buona truppa di gentiluomini avventurieri, e da altre parti Francesco di Strassoldo e Urbano Savorgnano, pur ciascuno di loro con un’altra buona truppa d’amici e di aderenti, e senza questi, anco alcuni altri.

E capitaronvi tutti, quasi in un medesimo punto: dove in su la campagna lette furono le commissioni del General di Palma, e tosto il Giustiniano ordinolli e isquadronolli e feceli marciare verso Medea, alla qual terra giungervi che ancora non era giorno, e senza alcuna difficoltà vi entrarono. Occupata questa terra, e ricevutosi dal Giustiniano, in nome del General di Palma, il giuramento della fedeltà, la gente si divise in più corpi. Il Conte Pompi con la sua banda e con una compagnia di cappelletti e una d’infateria, s’incamminò verso Meriano; la banda del Conte di Valdemarino con pari forze verso Romanso; il Capitan Pozzo con cento fanti verso Villesso; il Giustiniano con resto verso Cormonso: alla qual terra giunto vicino deputò, secondo gl’ordini del Generale, Marc’Antonio di Manzano, che andasse a parlamentare con quel popolo e intendere se volevano rendersi prima di essere battuti. Le genti di Cormòns si arresero immediatamente, così come quelle di Sagrado e dei paese limitrofi e in meno di un giorno: Né più di qua del Lisonzo v’erano rimasti luoghi in poter dell’Arciduca, fuor che Gradisca con villaggio o due vicini, e i colli che con il vantaggio del sito e di alcuni castellotti mantenevansi ancora sotto l’originario dominio.

La difesa imperiale

Così Giuseppe Caprin nel 1892 descrive la difesa degli arciducali: Gli Arciducali, appena videro minacciata la sponda sinistra dell’Isonzo, levarono una trincea dalla villa di Sant’Andrea sino a Sdraussina, poi una lunetta a speroni sopra un’altura tra Gradisca e Gorizia chiamata “Guardati avanti”, e una seconda sul monticello di Santa Trinità in Lucinico. I Veneti, passato il Iudri, munirono con terrapieni Mariano e fecero dei forti a Farra, Medea e Romans. Più tardi innalzarono quelli nominati dall’Erizzo e dal Priuli, e tre piccoli nella valle, chiamati il primo “Lando”, il secondo “Albanese” ed il terzo dei “Francesi”, e il contrafforte a Santa Maria di Fogliano, che doveva tener in rispetto quello della Stella, sul monte Sagrado, guardato dagli arciducali. Costruirono approdi, gabbionate, argini, parapetti, siepi, steccati, bastite, accostandosi sempre più alla fossa dei torrioni gradiscani. Gradisca fu al centro della battaglia per settimane senza cadere nelle mani venete.

La grande battaglia

Il primo bombardamento durò venticinque giorni, dal 5 al 29 marzo 1616. Si spararono quattordicimila cannonate, riempiute di polvere asciutta e legate con corda incatramata, le quali venivano poste dai petardieri tra le screpolature delle muraglie e quindi accese. Si riuscì con le mine ad aprire due brecce, tosto otturare dalle donne di Gradisca, alla cui testa figurarono Elisabetta moglie di Riccardo Strassoldo e Torriana contessa dei Torriani, che non sdegnarono di portare la gerla piena di terra. Rovinò sotto la grandine delle palle parte del rivellino e quasi tutto il torrione della campana; i proiettili, dopo aver in più luoghi crivellata la camicia dei bastioni, danneggiarono le chiese e le case.

Riccardo Strassoldo barone di Villanova

Riccardo o Rizzardo Strassoldo nacque da una famiglia che non conosceva altro che la professione della guerra. Sui campi di battaglia il nobile poteva dimostrare la sua devozione al sovrano ed acquisire, conservare ed accrescere il bene supremo: l’onore. Anche se concetti quali fedeltà e gloria risultavano essere valori fortemente interiorizzati dal ceto nobiliare in epoca moderna, essi, insieme ad altre fondamentali virtù, costituivano un bagaglio culturale ed etico per poter aspirare a conseguire titoli, feudi, incarichi, i quali, a loro volta, rappresentavano la giusta ricompensa per coloro che si erano saputi porre con assoluta abnegazione al servizio del proprio principe. Gli Asburgo infatti erano riusciti a suscitare negli animi della nobiltà, anche friulana, il desiderio di servirli, così della famiglia Strassoldo sono ritrovabili ben 5 cavalieri a servizio dell’Austria e altrettanti a servizio della Serenissima.

Allo scoppio della guerra Riccardo Strassoldo (1571 – 1651) era a capo della roccaforte gradiscana con la qualifica di luogotenente e collocato immediatamente prima del comandante supremo delle forze armate asburgiche Adam von Trautmandorf. Riccardo Strassoldo era rimasto dalla parte austriaca, fedele a Ferdinando, e non aveva risposto alla chiamata veneziana alle armi, quindi si era macchiato di una omissione gravissima non rispondendo a quel perentorio ordine di arruolarsi con il Signore naturale contro l’arciduca. Ferdinando riconobbe questa fedeltà e premiò Strassoldo con la nomina di luogotenente di Gradisca. Naturalmente Riccardo in quel momento era il massimo esponente del patriziato friulano, insieme a Giovanni Sforza Porcia, al servizio della famiglia Asburgo nella contea di Gorizia. Venezia a questo diniego avrebbe risposto in modo forte e appropriato con severi provvedimenti, come la dichiarazione di fellonia della famiglia. Gli storici di casa Strassoldo, Marzio e Orfeo, risposero alla Serenissima adducendo la loro nascita nelle terre arciducali nati, e nodriti ne gli Stati arciducali, et di padri servitori di quella famiglia. D’altra parte gli Strassoldo si consideravano di stirpe tedesca essendo i loro antichi avi provenienti dalla Pomerania e giunti nel XIII secolo ad abitare il Friuli.

Affetto e interesse stavano alla base delle scelte di campo dei nobili di questa terra di confine, lungamente contesa tra la Serenissima e gli Asburgo d’Austria. Furono moltissimi i nobili friulani al servizio degli Asburgo che abbandonarono le loro terre d’origine e si inventarono con pieno successo come cortigiani, militari, diplomatici e governatori. La corte imperiale aveva esercitato un fascino particolare sulla nobiltà friulana soggetta alla Serenissima: da ricordare che tra il 1564 e il 1619 la Contea di Gorizia e il Capitanato di Gradisca erano state inglobate nell’Austria Interiore Asburgica con capitale Graz, corte e propri organi di governo, come la Camera di Reggenza dell’Austria Interiore che offriva grandi possibilità di impiego e carriera anche per i nobili provenienti dal Friuli. Poi gli Asburgo si erano dimostrati molto generosi nell’attribuire titoli, onorificenze, cavalierati a quei nobiluomini che si erano fatti degni di tali ricompense proprio per la loro fedeltà. Tutto ciò andava ad onore del nobile e del suo casato, sottoponendo di conseguenza agli altri casati la validità del modello che poteva quindi essere imitato.

Anche se la famiglia Strassoldo era divisa nei diversi rami a favore dell’uno o dell’altro campo ciò non turbò i rapporti tra i singoli membri e così Riccardo non sdegnava di incontrare i suoi parenti più prossimi fedeli alla Serenissima per scambi di convenevoli e cortesie, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra. Da sottolineare un evento della guerra gradiscana quando, dopo una sortita arciducale in territorio veneziano, un mugnaio, tale Battista Pizzamea di Saciletto, venne portato con forza dai soldati a Gradisca e interrogato lungamente da Riccardo Strassoldo fu liberato senza richiesta di riscatto ma con la commissione di salutare affettuosamente i parenti Carlo, Francesco e Mario Strassoldo, ricordandogli di aver buona cura dei suoi possedimenti in terra veneta anche durante la guerra.

Riccardo fu anche letterato e scrisse la storia del suo casato selezionando una serie di documenti che sarebbe andata a corredare le storie già scritte dai suoi antenati. La parte più interessante di questo scritto è la sua autobiografia e il racconto di quando la Serenissima tentò di corromperlo per far cadere Gradisca con un’offerta di 25 mila cecchini contati e la carica pubblica più alta per un cavaliere in tempo di guerra. Lui inviò questa missiva a Baldassare Maradas, comandante di cinque compagnie corazzate, in modo che questi avrebbe comunicato agli Asburgo il tentativo di corruzione veneziano. Riccardo non volle rispondere alla missiva ma fece sapere che “non conveniva trattar con nemici in altra guisa che con il cannone, moschetto et spada”. Soggiunse poi che se anche lo avessero voluto “effettivamente signore di Venetia non [avrebbe] giamai commesso atione pregiudiciale al honor [suo] et che simil minaccie si [facevano] a homini vili et fanciulli, non già a cuori generosi che [avevano] solo per oggetto la gloria”.

Se le guerre gradiscane non furono vinte da Venezia il merito maggiore fu di Riccardo e anche per questa ragione ebbe svariati riconoscimenti dagli Asburgo negli anni successivi alla guerra: Consigliere di guerra, Colonnello della Contea di Gorizia, Supremo Cacciatore del Contado Goriziano, nel 1641 Conte ereditario del Sacro Romano Impero con facoltà di modifica dello stemma nobiliare oltre alla conferma del titolo baronale, gli vennero affidati i castelli di Trieste e Fiume. Riccardo avrebbe voluto divenire Maresciallo degli Stati Provinciali ma ciò gli fu negato in quanto un rescritto imperiale intimava agli Stati Provinciali stessi di nominare maresciallo il conte Giovanni Filippo della Torre. Gli Stati provinciali protestarono vivacemente: non volevano che un Torriano prendesse un incarico così prestigioso e preferivano un Lantieri.

La carica rimase vacante per lungo tempo e nel 1639 fu data provvisoriamente a Riccardo Strassoldo che però dovette rinunciarvi quasi subito in quanto il della Torre presentò ricorso adducendo gravissime accuse contro il nuovo maresciallo, accuse di connivenza con la Serenissima ai tempi delle guerra gradiscane che vennero ribattute da Riccardo presentando documenti che indicavano la sua assoluta fedeltà agli Asburgo. Il 20 dicembre 1646 la vertenza ebbe termine ma divenne Maresciallo della Contea Giovanni Ambrogio della Torre e lo Strassoldo fu messo da parte. L’anno successivo però i principi di Eggenberg gli conferirono il maresciallato della neo-costituita Contea Principesca di Gradisca.

Nella foto: una rappresentazione seicentesca dell’assedio di Gradisca

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