il ricordo
La comunità ebraica cancellata, Gorizia ricorda il rastrellamento di 80 anni fa

Ieri sera la commemorazione della comunità vittima della follia nazifascista, il rabbino di Trieste Meloni: «Deve essere una memoria viva».
La storia non appartiene al passato. È un continuo divenire, un fluire di eventi a cui ciascuno prende parte. Bruno Farber, deportato ad Auschwitz ad appena tre mesi ottant’anni addietro, è il piccolo che la madre stringe oggi a sé in ogni altra parte del mondo. Simbolo di quell’odio insensato che serpeggia nelle piazze d’Europa e fra le fila di Hamas. Testimonianza che la pace si raggiunge solo con il dialogo, mai con altra violenza. Si è svolta nella serata di giovedì, presso la sinagoga di via Ascoli, la cerimonia commemorativa a ottant’anni dalla deportazione della comunità ebraica da Gorizia.
“Già a settembre del 1943 ci sono stati i primi arresti - ha ricordato il presidente dell’associazione Amici di Israele, Lorenzo Drascek - Dal 1938 i cittadini di religione ebraica non sono più equiparati agli altri, ma appartengono alla razza ebraica. Dei circa duecento presenti, nel 1943 la comunità era ridotta alla metà. Un centinaio si erano diretti verso gli Stati Uniti, la Svizzera, Israele. Chi era rimasto pensava non sarebbe accaduto nulla”. L’arrivo delle truppe tedesche decreta anche nel nostro territorio l’applicazione della “soluzione ebraica”.
Con l’applicazione delle leggi razziali gli ebrei vengono seguiti, pedinati, segnalati tramite delazione. “Come la famiglia Iacoboni, che abitava al secondo piano dell’interno A, arrestata insieme agli altri. La mattina vengono fatti alzare e portati alla stazione di Gorizia”. Per poi giungere con il trasporto 21T ad Auschwitz. “Solo Giacomo riuscirà a tornare”. Cerimonia che rappresenta “un ricordo dei deportati abbandonati ai campi di sterminio, importante per la lotta all’antisemitismo, soprattutto in questo periodo”, commenta il presidente dell’associazione Italia-Israele, Renzo Sagues.
“Come ogni anno commemoriamo la deportazione della comunità di Gorizia, emblematica rispetto alle altre, perché è completamente scomparsa – ricorda il rabbino capo di Trieste e del Friuli Venezia Giulia, Eliahu Alexander Meloni - Molte comunità hanno sofferto, ma gran parte di loro è riuscita a rivivere. La comunità di Gorizia, invece, è stata completamente stroncata. Questo deve condurci a riflettere sull’importanza della presenza del diverso. Un dovere impellente per tutti, essere qui presenti”. Un’occasione per comprendere come i deportati non siano soltanto ombre del passato.
“Non sono solo un ricordo, il problema è ridurre a ricordo un semplice fatto storico. Se lo facciamo diventare solo storia, significa che tutto si potrà ripetere. Deve invece essere una memoria viva, per questo è importante leggere i loro nomi. Nel talmud è scritto che il giorno in cui una persona non è più ricordata, neanche pronunciando il suo nome, allora è veramente morta. Finché continuiamo a ripeterne nomi, permettiamo loro di continuare a esistere. Perché la volontà è stata proprio quella di cancellare la loro esistenza”. Un monito per l’umanità, affinché le differenze vengano accolte come arricchimento, piuttosto che annientate.
“Già cinque anni prima, nel 1938, era stata modificata la toponomastica – ha ricordato il primo cittadino Rodolfo Ziberna -. Da via Ascoli era divenuta via Tunisi. Poco prima della Seconda guerra mondiale la nostra comunità contava circa duecento membri, alla fine resta una dozzina. Negli anni ci si è augurato che questa tragedia non si ripetesse. In realtà si sta ripetendo, stiamo assistendo a vere ondate di antisemitismo che attraversano tutta l’Europa. Ecco perché, mai come adesso, dobbiamo spiegare il significato di questi avvenimenti, soprattutto ai giovani che vanno nelle piazze a sostenere Hamas senza sapere cos’è Hamas e cos’è Israele".
"Non dimentichiamo che Gorizia ha la più vecchia sinagoga della regione. Abbiamo l’obbligo morale di ricordare questi fatti drammatici e spiegare ai giovani cos’è accaduto, con la speranza di inculcare in loro - dal punto di vista etico, morale – una regola di vita: non nuocere agli altri. Tantomeno per motivi religiosi, etnici, del colore della pelle”. Presente alla cerimonia anche il questore Paolo Gropuzzo, secondo cui la cerimonia è “fondamentale, anche perché purtroppo Gorizia non ha più una comunità ebraica. Il più giovane deportato di quel ventitré novembre era un bambino di tre mesi.
Quella decina di sopravvissuti non è più riuscita a formare una comunità in senso completo, venendo assorbita da Trieste. È doveroso, essere qui in questo tempio – che purtroppo oggi è diventato un polo museale. Doveroso ricordare quella comunità, sia per come è andata a finire, sia soprattutto per come era cominciata, con secoli di tranquilla convivenza nel nostro territorio”. Il sindaco ha poi ricordato come il problema dell’antisemitismo non sia più della comunità ebraica, “ma di tutta l’Europa”. Per questo motivo, insieme al primo cittadino di Nova Gorica Samo Turel, ha sottoscritto un appello per la pace in Palestina e Israele.
Concorde l’assessore Sebastiano Callari, secondo cui “è bastata una guerra che sembrava ormai lontana nel tempo per risvegliare l’antisemitismo. Confondendo le ragioni di due stati con le ragioni d’esistere di un popolo e di una cultura più che millenaria. Un odio che ci fa comprendere come l’antisemitismo non sia mai finito. Non potremo mai farci portatori di pace, fin quando quel seme di odio rimane radicato nella nostra cultura”. Israele ha lo stesso diritto di esistere della Striscia di Gaza.
All’inaudita violenza con la quale Netanyahu sta rispondendo all’attacco del 7 ottobre, fa da contraltare il terrorismo di un’organizzazione politica e paramilitare che usa i civili come scudi umani. “La speranza è che l’antisemitismo scompaia – auspica il rabbino capo - Ciò significherebbe affrontare con coraggio una questione che risveglia il senso di colpa dell’Occidente. Un momento al quale oggi forse non siamo pronti. Il sette ottobre ha scioccato l’intero mondo ebraico, non solo Israele. Perché abbiamo assistito a un pogrom in diretta, nel XXI secolo".
"Uccidere non per la conquista di un territorio, ma per essere ebrei. Non è accettabile, giustificare il pogrom come arma di lotta. Per questo è importante ricordare. Perché la cancellazione è impoverimento”. L’appello del rabbino è alla rieducazione dei giovani, affinché possano acquisire quella capacità critica che in fondo è radice della vera pace.
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