Dal festival
Come saranno le città dell'Universo? Pratiche, funzionali e per tutti: «Nello spazio le differenze sono appianate»

Ne hanno discusso gli architetti Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro che da anni si occupano di concepire e disegnare oggetti e spazi per lo spazio.
Quando Galina Andreevna Balašova progettava, immaginandoli e poi disegnandoli, gli ambienti per gli astronauti, aveva ben in mente l’idea che gli stessi dovessero aiutare le persone che in quel momento si trovavano nello spazio non solo a vivere bene ma anche a mantenere alcune abilità fisiche che, fuori dal proprio pianeta e in condizioni totalmente diverse, erano difficili da sostenere.
Lo hanno raccontato bene Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro, intervistati nella seconda giornata della XXIesima edizione del festival èStoria a Gorizia da Martina Delpiccolo nella cornice dell’Auditorium della Cultura Friulana. Lo studio dei due architetti, (a+b), nasce nel 2011 con l’obiettivo di fare design incrociando la ricerca e l’innovazione tecnologica con la poesia. Entrambi architetti, PhD, specialisti in design per lo Spazio e ambienti estremi, sperimentano e progettano ibridando tecnologie spaziali e terrestri con il fine di creare nuovi prodotti per la moda, la casa, l’ufficio e l’ambiente. La ricerca costante della trasversalità e l’approccio multidisciplinare li portano ad operare in aree molto diverse. Collaborano stabilmente con le principali Agenzie Spaziali internazionali e con importanti aziende del design, parallelamente conducono attività di ricerca attraverso l’insegnamento e la pubblicazione di saggi sulla cultura del progetto. Sono professori alla Scuola del Design del Politecnico di Milano, dove hanno creato il 1° corso di Space Design, Space4InspirAction, supportato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA,) e visiting professor in diverse università internazionali.
Se «più del 60% dei moduli spaziali sono prodotti in Italia», come hanno ribadito Dominoni e Quaquaro, le sfide da affrontare nella progettazione di questi delicati manufatti è unica. «Bisogna pensare ai problemi di circolazione e ai vari liquidi che il nostro corpo contiene e produce. Siamo fatti per un ambiente con gravità, cosa che nello spazio non c’è», hanno ribadito.
Con un isolamento che porta spesso a problemi di solitudine ma anche una costante mancanza di privacy, uno dei grandi problemi da risolvere è anche l’orientamento. «Per potersi orientare in quegli spazi ci vogliono almeno tre settimane – così Dominoni – ed è necessario progettarli bene in modo da garantire non solo il comfort ma anche una permanenza umana e che, in qualche modo ricordi casa».
Tornando alla Balašova, l’architetta russa aveva già capito la fondamentale importanza di colori e di suppellettili in grado di rispecchiare delle sembianze più terrestri possibili. Su questo «si è collaborato soprattutto durante la grande dicotomia Urss-Usa ed è necessario continuare a farlo anche oggi».
Per far sentire gli astronauti a proprio agio, ricreando ambienti ‘normali’, si utilizzano proiezioni che ricreano albe, tramonti, i riflessi o i giochi di luce tra sole e foglie mentre è proprio con questo spirito che «si pensa e progetta alle possibilità di vita: sulla luna, ad esempio, è in progettazione una cupola che possa essere ricoperta da materiale lunare e poi fungere da luogo nel quale poter vivere e studiare».
La sfida è anche quella di progettare e realizzare del cibo che possa essere utilizzabile ed edibile nello spazio ma che possa ricordare in qualche modo quanto si mangia «sulla terra». L’esempio è arrivato direttamente dallo schermo nel quale è stato proiettato un prototipo di arancia ma completamente creato in laboratorio. «Non è un’arancia ma il gesto ricorda quello di togliere spicchio dopo spicchio le parti del frutto che non può esserci nello spazio».
Le ‘Città dell’Universo’, dunque, dovranno prevedere anche questo: «Abbiamo anche pensato a un oggetto che possa creare la sensazione di un abbraccio o, come minimo, qualcuno che ci tiene la mano. Questo per combattere la solitudine che si crea nello spazio ma «nella progettazione di ogni tipo di oggetti è necessario guardare a queste necessità. Se pensiamo che una protesi a una gamba non deve aiutare a camminare, perché le gambe nello spazio sono quasi inutili, ma migliorare le prestazioni allora la disegniamo in modo completamente diverso». La progettiamo con la forma a spirale tipica del Dna e con una sfera al vertice per potersi meglio aggrappare alle superfici delle stazioni spaziali (in foto).
Un modo totalmente diverso di concepire la funzionalità dell’uomo e l’uomo stesso: «Nello spazio siamo tutti un po’ disabili e tutti perdiamo funzionalità, ecco perché lavorare con un campione paralimpico come John McFall è stato per l’Esa di grande aiuto. In questo senso dovremo ripensare anche a come presentarci: non più eretti – così i due architetti – ma in una posizione totalmente diversa».
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