Cittadini e non oggetti, Mitja Stefancic racconta la sua ultima pubblicazione

Cittadini e non oggetti, Mitja Stefancic racconta la sua ultima pubblicazione

Gli interventi

Cittadini e non oggetti, Mitja Stefancic racconta la sua ultima pubblicazione

Di Ivan Bianchi • Pubblicato il 03 Set 2021
Copertina per Cittadini e non oggetti, Mitja Stefancic racconta la sua ultima pubblicazione

Il volume raccoglie articoli di varia natura e su vari temi di attualità e non solo per «arricchire chi compie uno sforzo intellettuale oltre che avere dei riscontri positivi per gli altri».

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Una raccolta di interventi di varia natura con tematiche spesso diverse fra di loro. Dall’economia alla sociologia fino a recensioni riguardanti il territorio e il cittadino, “Citizens, not subjects” di Mitja Stefancic, volume autopubblicato dall’autore che non è nuovo a contributi giornalistici sui temi, raccoglie vari articoli. Un filo unico che collega l’essere un cittadino, appunto, e non un mero numero. C’è, dunque, la possibilità di realizzarsi veramente come soggetto attivo all’interno della società e della democrazia o rimane uno sforzo che in pochi sono disposti a compiere e realizzano?

Credo che molto dipenda dalla cultura circostante (regionale e del territorio, appunto), dall’economia su cui si basa la società su diversi piani – da quello internazionale a quello locale; ed infine dalle aspettative generali dei cittadini, che non di rado sono culturalmente veicolate. Spesso parliamo della volontà delle persone, dimenticandoci del fatto che in alcuni contesti anche le migliori volontà del singolo oppure le idee più intriganti non riescono ad emergere o ci riescono solo parzialmente o simbolicamente. Viceversa, capita che anche nei sistemi apparentemente liberi e aperti la gente si assopisca culturalmente e politicamente, dimenticando del rapporto tra diritti e doveri: credo che questo sia il rischio che corriamo attualmente un po’ ovunque in Europa, un appiattimento verso il basso. Pertanto, la possibilità di realizzarsi appieno come soggetti attivi all’interno della società e della democrazia esiste, ma non si tratta di un percorso semplice - forse in futuro sarà ancora più difficile.

Stiamo assistendo ad un paradosso: nei Paesi economicamente e tecnologicamente avanzati la democrazia non sempre viene intesa a dovere dai cittadini, le basi della democrazia non vengono studiate in maniera approfondita a scuola o analizzate a dovere alle università. A risentirne sono la qualità della vita, la qualità dei servizi resi dalle istituzioni, i rapporti cittadini-istituzioni e talvolta tra gli stessi cittadini. Vorrei poter pensare che in molti siano in grado di vivere da soggetti proattivi, vagliando sullo stato della democrazia per dare una mano alle istituzioni a preservarla. Ma non voglio farmi delle illusioni e credo che ancora poche siano le persone che hanno un atteggiamento sufficientemente proattivo ed interessato in questo senso. Apparentemente tra i giovani c’è un crescente disinteresse su questi temi, ma forse proprio le nuove generazioni potranno sorprenderci positivamente dimostrandosi più attente e preparate rispetto a quanto abbiamo saputo fare negli ultimi 15 o 20 anni. Infine, su un piano economico-organizzativo mi risulta che oggigiorno sistemi organizzativi democratici raramente fioriscono nelle aziende piccole o di medie dimensioni – qui mi riferisco alle realtà europee, che sono quelle che meglio conosco.

Alcuni contributi sono di qualche anno fa, raccolti da pubblicazioni varie. Volendo stilare un’anamnesi di quanto scritto e dei vari temi, si sono modificati – in bene o in male – oppure siamo sempre al livello descritto?

Le politiche mondiali sono apparentemente un po’ più attente riguardo a temi quali il cambiamento climatico, gli effetti inattesi o non calcolati dell’economia liberista (ovvero un mercato del lavoro particolarmente precario e per molti versi troppo poco premiante – ciò vale anche per i Paesi con maggior spinta meritocratica; un sistema finanziario troppo autoreferenziale per non dire slegato dai reali bisogni dell’economia) ecc. Ci sono stati dei dibattiti e delle proposte interessanti che si sono sviluppate nel corso degli ultimi 5 o 6 anni. Ma tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare e credo che per dei cambiamenti più decisi in base ad una presa di coscienza sullo stato delle cose ci vorranno ancora parecchi anni… Insomma, mi sembra che nonostante alcuni momenti di crisi storici come, ad esempio, la crisi finanziaria iniziata tra il 2007 e il 2008, la mentalità prevalente sia rimasta in buona parte immutata.

Per quanto concerne i temi che riguardano le politiche di gestione dei dati e dell’informazione (mi riferisco per esempio al caso di Edward Snowden brevemente citato nel mio volume) mi risulta che di grosse novità non ce ne siano state né a livello simbolico (garanzia di libertà per Edward Snowden o perlomeno un dibattito aperto e giusto) né a livello politico. Forse non ce ne rendiamo conto, ma sono temi che incidono sulla nostra quotidianità, su come viviamo e ci approcciamo all’informazione, come valutiamo le politiche dell’informazione, e pertanto sul livello di fiducia che possiamo riporre nelle odierne democrazie.

Infine, se devo fare un breve cenno alla comunità linguistica slovena in FVG di cui sono membro, vorrei spezzare una lancia in suo favore in questa circostanza. Quando ne parlo internamente, da membro di una comunità – tendo a essere mediamente critico in quanto ritengo che la critica sia un valore e uno strumento per migliorarsi – questa regola dovrebbe valere tanto più per le minoranze. Da questo punto di vista ritengo che la minoranza slovena non abbia ancora compiuto tutti i passi per migliorare la sua posizione finanziaria, che è stata messa a dura prova da alcuni fallimenti definitivi in passato (BCT) o da alcune crisi recenti per fortuna arginate che cito nel libricino (KB1909). Ma facendo un passo indietro, posso dire che per essere una comunità con risorse limitate quella slovena sta facendo comunque bene, cercando di valorizzare la propria identità culturale, la propria ricchezza linguistica ed arricchire in tal senso anche l’intero tessuto regionale. Dunque tutto sommato ci sono stati dei cambiamenti positivi e sorprendenti da quando ho scritto i miei pezzi…

C’è stato un lavoro non solo di scrittura ma anche di traduzione per rendere il volume leggibile da italiani e da sloveni, si guarda alla Mitteleuropa con consapevolezza e spirito critico. Ci si sta muovendo verso questa direzione, anche dal punto di vista culturale, o no? Lo si può fare?

Certamente, lo si può fare. Ritengo che dalle nostre parti qualcosa di specificamente “mitteleuropeo” l’abbiamo ereditato e nonostante tutto, metaforicamente parlando, ce lo portiamo nel sangue. Un punto di vista mitteleuropeo, ricontestualizzato ai nostri tempi, può essere uno strumento in grado di aiutarci a scegliere la direzione futura, a porci gli obiettivi sociali e politici futuri. Sicuramente lo sforzo di produrre un volume con testi sia in italiano sia in sloveno va di pari passo con politiche di apertura e di valorizzazione delle specificità culturali e delle competenze territoriali. Lo sforzo di pensare criticamente, che traspare dai testi, è probabilmente qualcosa di per sé di mitteleuropeo: personalmente ritengo che una critica sensata e propositiva sia alla base dei miglioramenti sociali e culturali. Anche per questo motivo cito l’esempio di un gruppo musicale e artistico che oggi è riconosciuto per la sua caratura internazionale: i Laibach – un gruppo di ampio respiro europeo, ma allo stesso tempo fortemente radicato nella tradizione culturale slovena e quella mitteleuropea.

A livello locale/regionale ritengo che esista lo spazio per premiare il senso critico – certamente possiamo muoverci in questa direzione anche su un piano prettamente culturale. Possiamo ritenerci fortunati di questa possibilità. Viceversa in molte altre parti in Europa e nel mondo la critica viene vista con diffidenza, viene troppo spesso percepita come un desiderio di distacco forzato o di una sfida senza se e senza ma… Ma non dovrebbe essere così.

Essere cittadini implica anche consapevolezza, studio e ricerca, quello che hai fatto tu nel volume. Può essere un percorso condivisibile e “seguibile”, insomma, un esempio?

Indubbiamente impegno, ricerca e studio rientrano nei presupposti di una cittadinanza attiva, partecipativa, “piena”. Non so in quanti sarebbero disposti a seguire questo esempio oppure se di esempio si possa parlare: eppure, qualsiasi tipo di ricerca, di “sforzo” intellettuale o culturale può arricchire chi lo compie oltre che avere dei riscontri altrettanto positivi anche per gli altri che vogliono esserne partecipi. Condivido il pensiero di alcuni intellettuali che, come Massimo Recalcati, ritengono che scrivere un libro significhi aprirsi alla comunità, compiere un gesto di condivisione, mettersi in gioco. Sono tutti elementi che io rapporto al concetto di buona cittadinanza. Ciò vale anche per chi scrive in senso lato, per chi comunica attraverso l’arte o chi decide di esprimersi con delle ricerche e degli studi attraverso i nuovi media… Per ritornare al mio volumetto non ho avuto in mente un lettore ideale o un “fruitore” standard del libro: l’ho scritto pensando che per qualcuno possa diventare un momento di riflessione – anche su temi disparati come quelli presenti nel mio libro. Sicuramente se anche un solo articolo raccolto nel libro potrà arrivare nelle mani di una persona, farle fare una riflessione sui temi d’attualità, spingerla a porsi delle domande sulla società in cui viviamo, allora il mio sforzo avrà avuto senso.

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