Cinema, Rai e Hollywood: la vita da star di Dante Spinotti raccontata a Gorizia

Cinema, Rai e Hollywood: la vita da star di Dante Spinotti raccontata a Gorizia

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Cinema, Rai e Hollywood: la vita da star di Dante Spinotti raccontata a Gorizia

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 16 Feb 2024
Copertina per Cinema, Rai e Hollywood: la vita da star di Dante Spinotti raccontata a Gorizia

Il celebre direttore di fotografia ospite ieri sera al Kinemax, dove ha presentato il suo libro e raccontato aneddoti sulla sua lunga carriera.

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Il cinema è un’opera collettiva. Questo è l’insegnamento del direttore di fotografia Dante Spinotti (nella foto, a destra), che ha presentato il suo ultimo libro - “Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta” edito da La nave di Teseo - a conclusione del quale è stato proiettato il film di Trudie Styler “Posso entrare?”. Si è svolto nella serata di ieri, al Kinemax di Gorizia, l’incontro con uno dei più geniali maestri di luce nella storia del cinema. Moderata dal ricercatore dell’Università di Udine Silvio Celli (a sinistra), la riflessione ha offerto a Spinotti l’opportunità di ripercorrere con la memoria i propri passi, svelando al pubblico le tecniche d’illuminazione che si celano fra le pieghe di un film.

«Il cinema nasce da una molteplicità di autori», da una sintonia creativa in cui ciascuno ricopre un ruolo fondamentale. Dove il ruolo “minore” del direttore di fotografia non riveste meno importanza rispetto a quello “autorevole” del regista o dello scrittore. «La tendenza della scuola italiana è una divisione teorica: sopra troviamo scrittori, registi, sceneggiatori; sotto gli scenografi, i costumisti, il resto della troupe. In America è l’opposto. Le università americane cercano disperatamente di mettere in contatto gli studenti con chi il cinema lo fa. Paolo Mereghetti diceva che i poveri direttori della fotografia non sono abbastanza considerati. In America non è così. Capita persino che riceviamo l’Oscar».

Interrogato in merito a Olmi, l'ospite ricorda come amasse controllare ogni dettaglio, come del resto lo stesso Kubrick. «Per “La leggenda del santo bevitore” andammo a pranzo a Bassano e mi offrì questo film a Parigi. Avevo timore che intervenisse spesso, invece mi son trovato bene. Noi siamo artigiani, non artisti, perché incontriamo tanta difficoltà. Dalla stanchezza, al cattivo umore degli attori, ai limiti di budget. Parlare d’arte è complicato. Mi piace ricordare le parole di Umberto Eco: un’opera d’arte può essere descritta come tale solo quando si compie un passo avanti con i mezzi di comunicazione. Chi fa una bella imitazione della Monna Lisa non è un artista. Ma il film può diventare opera d’arte quando un insieme di persone cooperano fra loro».

Ricordando poi “L.A. Confidential” racconta come per Kim Basinger decise di utilizzare molte luci, mentre per Russell Crowe si scelse una luce scarsa. «Per renderlo più grezzo, più maschio», spingendo l’attore a recriminare. E se in “Crimini del cuore” Jessica Lange viene ringiovanita dalle luci, nel suo primo film hollywoodiano – “Spiagge” – è Bette Midler a mostrargli «l’idea di essere giustamente illuminata, mentre io avevo in mente di creare un chiaroscuro». Finché un giorno, passeggiando sul Sunset Boulevard di Los Angeles, entra in una libreria. È qui che s’imbatte in un libretto della Kodak, «letto in una notte», dove si spiegavano vecchie tecniche per fotografare le donne. «Riprendere i volti, soprattutto quelli femminili, è uno degli aspetti più affascinanti».

Un mestiere – quello del direttore di fotografia – in grado di carpire l’anima di ciò che si riprende. «Guardando nel mirino Stefania Sandrelli che recitava ne “La disubbidienza”, mi son detto “You are mine, baby. Quando sei nel mirino sei mia”. C’è questo rapporto di passione, con chi viene ripreso». Degli anni alla Rai rammenta come allora facesse «programmi culturali interessanti e sceneggiati, come “La freccia nera” con Sandro Bolchi». La Rai offrì al maestro una discreta solidità economica - in quanto «un aspetto chiaro è che non potessero licenziarti» - ma anche la possibilità di sperimentare. Dall’uso della pellicola invertibile per creare i contrasti nella laguna veneziana, ai duecento metri di trincee riprese sopra Selz con il contrasto delle pellicole del ‘15-‘18.

«Una tecnica concettualmente usata da Spielberg anni dopo nel “Salvate il soldato Ryan”». Sperimentazione che spinse il regista Marco Ferreri a ingaggiarlo, mentre al maestro mancò «il coraggio di lasciare la Rai», rinunciando al film. In merito ai modelli pittorici, Spinotti preferisce «un rapporto diretto, con la luce. Non approvo l’atteggiamento di Vittorio Storaro, che nei suoi film fa sempre riferimento a Tamara de Lempicka. Per me ha importanza un’immagine funzionale alla storia. Quindi prediligo un rapporto diretto con l’umanità, da cui traggo ispirazione».

Il maestro ha poi analizzato insieme al pubblico alcune sequenze di “Hercules” – girato con 50 lampade da 1000 watt - e “L’ultimo dei Mohicani”, esempio di illuminazione nel rapporto a due. Dove Michael Mann inquadra Daniel Day-Lewis di tre quarti, mentre Madeleine Stowe «lo guarda di quinta, in un’inquadratura molto classica. Il centro è sotto l’occhio destro di Madeleine, perché guarda molto vicino alla macchina da presa, primo piano al quale lo spettatore non può sfuggire. Uno scambio di sguardi che è una dichiarazione d’amore tra i due», realizzata attraverso un tipo di luce definita “luce a libretto”, «che mi venne suggerita da un elettricista. Il cinema si fa collaborando, e da gente in gamba si impara molto».

Non mancano cenni a “Heat” o a “X-Men 3”, dove per l’illuminazione si è ispirato alla “Commedia” dantesca - mentre l’attrice Famke Janssen realizzava ai ferri una sciarpa, poi donata a Spinotti - E a quanti siano affascinati dal mestiere del cinema e non abbiano le idee chiare sul percorso di studi, Spinotti rimarca come non vi sia un’unica strada da seguire. «Tutte le vie sono giuste. Quello che conta è che vi sia una passione inflessibile, anche per superare quei momenti di difficoltà in cui non c’è lavoro».

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