L’INTERVISTA
‘Cent’anni’: l’amore, la malattia e la verità nel cinema di Maja Doroteja Prelog

Un viaggio intimo tra dolore e rinascita, raccontato attraverso la macchina da presa: la regista slovena presenta il suo documentario, un racconto autentico tra amore e trasformazione.
Per amore, solo per amore. Girare un film, attraversando insieme al compagno il tunnel del cancro, vivere quel dolore e cristallizzarlo in un documentario. È la scelta coraggiosa della regista Maja Doroteja Prelog, che giovedì 13 marzo – alle ore 20 - presenterà al Palazzo del Cinema di piazza Vittoria il lungometraggio “Cent’anni” (2024) nell’ambito della Rassegna del cinema sloveno in Italia. «Perché non vuole lasciarlo andare? Perché è la persona più fottutamente importante nella sua vita», rimarca Maja sul suo profilo Instagram.
Lui è Blaž, e ha appena vinto la battaglia più importante: quella contro la leucemia mieloide acuta. Una narrazione asciutta, sconvolgente, disarmante, che non è frutto d’invenzione, ma si sviluppa sul piano della realtà inseguendo le tappe della malattia e della guarigione, fino alla meraviglia del viaggio in Italia accolto come una rinascita. Nata a Lubiana nel 1988, Prelog esordisce con “Wild East” aggiudicandosi il premio Vesna come miglior cortometraggio studentesco, per poi dirigere il corto sperimentale “2 0 4 5”, al quale è stato assegnato il premio FeKK SLO al Ljubljana Short Film Festival.
Abbiamo intervistato Maja, nel tentativo di comprendere come lo sfaldamento della felicità e la disgregazione di un amore possa essere messo a fuoco attraverso l’obiettivo della macchina da presa, in un’operazione “inversa” che metta a nudo l’interiorità dei protagonisti.
«È una storia sulla fine di ciò che eravamo», ci rivela l’autrice, prendendo le distanze dalla propria sfera emotiva. «Si potrebbe dire che riguarda la fine dell’amore, ma nella vita reale siamo ancora insieme – ammette, alludendo anche al post su Instagram – anche se la dannata relazione non funziona». Un’analisi spietata che non fa sconti né a se stessa né al compagno, in cui a emergere è quel mondo che «non funziona», dal quale evolversi come la crisalide che si tramuta in farfalla. «Forse alla fine si rendono conto di essere due persone diverse. Possono ricominciare da lì? Le persone sono preziose, le relazioni sono preziose, e vale la penna lottare per loro», riflette sui social in tono accorato.
Ritieni che il cinema abbia dei limiti, oppure la macchina da presa ha il compito di scavare nell’animo umano, anche per le questioni private?
«Credo che il cinema sia una potente forma d’arte in grado di affrontare le profondità del nostro esperire. La telecamera riesce a scavare nell’animo umano per rivelare le verità più crude, intime e dolorose inerenti alla natura umana. Apporre limiti dipende dall’intento, dall’etica e dalla prospettiva dell’artista. Penso che non vi siano limiti rigidi, quanto la responsabilità di un artista di affrontare argomenti difficili con un obiettivo concreto, piuttosto che come semplice voyerismo. Il cinema deve essere consapevole del consenso, dello sfruttamento e di quella sottile linea di confine che separa l’arte dall’intrusione. Nel contesto di “Cent’anni”, la questione dei limiti del cinema diviene profondamente personale. Dal momento che il film riflette le mie reali battaglie e quelle affrontate dal mio partner, la macchina da presa non è solo un’osservatrice: diviene una componente in grado di catturare la nostra vulnerabilità e la persistente veridicità delle emozioni. In questo caso la sfida è rappresentata dal bilanciamento di onestà e rispetto dei nostri confini emotivi».
A quale regista ti sei ispirata?
«È una domanda difficile. Non è stato un solo regista, ad avermi influenzata, direi piuttosto diversi. Da giovane mi entusiasmava Quentin Tarantino. Amo i film americani degli anni Settanta, sono affascinata dal film d’esordio di Georg Lucas “THX 1138”. Ma mi ha toccato profondamente anche “Dancer in the dark” di Lars von Trier: il movimento Dogma 95 risuona nelle mie corde interiori, in termini di approccio cinematografico. Sono una fan di David Lynch, adoro i film di Gianfranco Rosi e mi sono ispirata a “Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino. E poi amo i film di Alice Rohrwacher, Ena Sendijarević, Chloé Zhao e Charlotte Wells…»
Nel tuo film c’è forse qualcosa di “Viaggio in Italia” diretto da Rossellini?
«Oh, che film meraviglioso! L’ho guardato dopo che il mio editor mi ha consigliato di affrontare la storia di “Cent’anni” in maniera simile. Questo lungometraggio è, in effetti, qualcosa di analogo al film di Rossellini in relazione al tema e al conflitto centrale: un viaggio in Italia che innesca tensioni irrisolte fra i personaggi».
“Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé, ma perché è lo splendore del vero”. Così afferma Jean-Luc Godard di Rossellini. Si può dire lo stesso a proposito di “Cent’anni”?
«Questa citazione riguarda un certo tipo di fenomenologia del cinema, in cui la bellezza emerge non solo dall’estetica, ma dalla stessa verità: nella forma, nel sentimento, nella maniera in cui qualcosa viene rivelato. “Cent’anni” riguarda la verità che si rivela attraverso il vissuto, la memoria e la presenza del luogo».
L’amore è la forma più grande di libertà: sei d’accordo?
«Può essere che l’amore non sia la più alta forma di libertà, ma che l’amore in se stesso sia libertà. Non è qualcosa da afferrare, quanto qualcosa che già siamo».
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