Perché cantare il Te Deum alla fine del 2020?

Perché cantare il Te Deum alla fine del 2020?

Dalla messa a Sant'Ignazio

Perché cantare il Te Deum alla fine del 2020?

Di Ivan Bianchi • Pubblicato il 01 Gen 2021
Copertina per Perché cantare il Te Deum alla fine del 2020?

L'arcivescovo di Gorizia ha posto al termine della celebrazione con il canto del Te Deum nella chiesa di Sant'Ignazio la statuina raffigurante un'infermiera all'interno del presepio.

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Perché cantare il Te Deum al termine di un anno davvero particolare come il 2020? Se lo è domandato anche l’arcivescovo di Gorizia, monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, durante la messa di fine anno a Gorizia. Una celebrazione al termine della quale il presule ha posto all’interno del presepe la statuina raffigurante un’infermiera, simbolo indiscusso della pandemia che ha cambiato le vite del mondo intero.

“C’è quindi motivo per glorificare, lodare e ringraziare Dio anche stasera, al termine di un anno difficile”, ha precisato Redaelli durante l’omelia. “Con la convinzione che il Signore non ha smesso, né smetterà di essere il Dio con noi. Anche se a volte sembra addormentato sulla nostra barca travolta dalla tempesta, come in quell’episodio del Vangelo che papa Francesco ha commentato in quella sera di fine marzo in una piazza san Pietro totalmente vuota, bagnata dalla pioggia, siamo figlie e figli di Dio. Nonostante tutto anche quest’anno la benedizione di Dio non ci è mancata. E anche nell’anno che domani inizia non mancherà. Quella benedizione che forma oggetto delle parole di Mosè consegnate al sacerdote Aronne perché benedica il popolo, come ci riporta la prima lettura: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace». La benedizione di Dio non è un semplice augurio dato all’esterno della nostra realtà, perché Lui è dentro la nostra realtà, con le sue luci e le sue ombre. Non ci abbandona e ci è vicino qualunque cosa succeda. Dio non è un Padre che abbandona i suoi figli e noi siamo suoi figli”.

“Se tutto questo è vero, possiamo tornare all’immagine dell’inizio per correggerla. Se ci lasciamo attrarre dal Natale del Signore, non veniamo improvvisamente estraniati dalla pandemia, anche se sarebbe bello e speriamo che sia presto la pandemia a estraniarsi rispetto a noi, ma scopriamo che la forza della redenzione che Gesù ci ha portato include tutta la nostra realtà, che Egli davvero ci riscatta da ogni male e che alla fine niente è più forte del suo amore e che in Lui tutto può trovare senso”, ha proseguito l’arcivescovo. “Dobbiamo allora in qualche modo riconciliarci con la situazione che stiamo vivendo, portandola con noi questa sera davanti alla grotta di Betlemme, perché sia salvata da Colui che ha assunto su di sé tutta la nostra umanità, malattie, lutti, sofferenze, peccati compresi”.

Collocando la statuina nel presepe, Redaelli ha ricordato come “possiamo metterla nel presepio anzitutto come segno di riconoscenza verso tutti gli operatori sanitari e tante altre persone che anche con molti rischi e talvolta a costo della vita si prodigano per le persone malate. Vorrei poi che fosse soprattutto segno che il Natale di Cristo non ci estranea dalla dura realtà di oggi, ma ci aiuta a viverla con speranza e soprattutto con amore. Quell’amore che il Bambino Gesù ci rivela e che ci spinge a donare a chi ne ha più bisogno. Ecco il motivo per cui cantare stasera il Te Deum – ha concluso il presule – ovvero ringraziare per l’amore che, nonostante tutto, abbiamo ricevuto e che il Signore ci ha concesso a nostra volta di donare in quest’anno 2020, anno non facile, ma pur sempre, come si diceva una volta, Anno Domini, anno del Signore”. 

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