Il campo di concentramento di Visco. Sul confine fra culture europee, l’uomo violato

Il campo di concentramento di Visco. Sul confine fra culture europee, l’uomo violato

La storia di Milutin Burghič

Il campo di concentramento di Visco. Sul confine fra culture europee, l’uomo violato

Di Ferruccio Tassin • Pubblicato il 27 Gen 2022
Copertina per Il campo di concentramento di Visco. Sul confine fra culture europee, l’uomo violato

Ferruccio Tassin ripercorre una storia sul lembo di terra che, da confine tra Stati, si è trasformato in un orribile ricordo.

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Spuntavano dallo stradone di Palma, i deportati che, da tutta la Jugoslavia, venivano rinchiusi dietro il filo spinato, in quella che ora è la caserma “Luigi Sbaiz” a Visco.

Venivano da ovest, attraverso la circonvallazione che lambisce la fortezza di Palmanova. Ma giungevano da est, fino alla stazione ferroviaria; est, ovest, indicazioni geografiche apparentemente innocenti. Basta conoscere un minimo di storia, per capire, invece, che proprio qui stava l’enormità della offesa scatenata diabolicamente per orgoglio di nazione, tracimato in nazionalismo, decomposto in razzismo.

Proprio luoghi del campo di Visco (quelle persone vi giungevano legate con gli schiavettoni, camminando in fango o polvere), c’era stato, per cinque secoli, il confine. A est, cultura slava, tedesca, ungherese; a ovest, latina. La popolazione confinaria conviveva: pacifica, quando i grandi filavano in alleanza o rispetto; agitata, quando i “sorestants” decidevano che, per i loro interessi, andava bene così.

Nel febbraio ’43, allorché nacque il campo in tempi rapidissimi, favoriti da una ventina di padiglioni in muratura rimasti dalla grande guerra, l’Italia, che da due anni occupava terre jugoslave, aveva deciso di snazionalizzarle, o di privarle della popolazione che voleva resistere.

Le strutture fisse avevano funzioni di logistica e comando; per i deportati, c’erano tende e baracche, quelle che poi, per ironia, i Tedeschi smontarono e portarono in Germania per internarvi i nostri soldati dopo il “rabalton” dell’ 8 settembre. Le donne con i bambini rinchiusi in “appostiti recinti” (anche linguisticamente, terribile, ma testuale); gli uomini, in altri spazi, sempre col filo spinato a fare da “legante”. Tempi vuoti infiniti per tutti, riempiti da inventiva di intellettuali che amavano il popolo. Vi morirono in 25; per essere precisi, 22 a Visco, 3 nell’ospedale di Palma. Ancora vengono fuori piccoli episodi di solidarietà di quei tempi.

Apparentemente piccoli, ma grandi davanti a chi sa, o saprà, valutare e perfino di drammatico rischio.

A San Vito al Torre, per 20 mesi, partecipi del segreto, il segretario comunale Tarcisio Gigante, il parroco don Umberto Miniussi, il podestà Ildebrando Zuttion, e sicuramente qualche Sanvitese, per ora sconosciuto, tre fuggiaschi (dato lo spazio di tempo, evidentemente da Gonars) furono tenuti nascosti. Lo ha scoperto casualmente chi scrive, trovando un appunto nelle carte di don Miniussi e collegandolo a una foto e a una cartolina postale, conservata dal figlio (Aurelio) del segretario: è di Milutin Burghic di Opteruša Pošta Orahovac Prizren (o Prisren), in Montenegro.

Al “caro amico signor secretario”, Milutin scrisse: “siete stato un uomo molto buono per noi [evidentemente parlava anche per gli altri due], mi non poso dimenticarvi mai … noi non potremo pagarvi la vostra opera tuti vi ringraziano che mi avete nascosto 20 mesi …”.

La conferma di questa vicenda sta nella difesa, da parte di don Miniussi del podestà, accusato, alla caduta del fascismo, quando l’Italia scoprì di aver avuto 50 milioni di “antifascisti”. Con scrittura grintosa e tachigrafica, riempie la difesa di due pagine scritte a matita in sette punti. Al secondo, scrive: “meravigliato e fortemente indignato per quanto si fa ingiustamente [sottolineato] contro la persona del signor Ildebrando Zuttion … il sottoscritto espone quanto segue: “ … Nel tempo della caduta del fascismo, favorì soldati italiani a nascondersi, a scappare dalle mani dei tedeschi, con carte di identità, tessere annonarie; salvò persino tre prigionieri serbi scappati dai campi di concentramento fascisti, nascondendoli in famiglie di San Vito, dando loro la possibilità di vitto e alloggio, con grande suo pericolo (pericolo di essere mandato in Germania) dati i continui controlli da parte delle autorità tedesche e repubblichine …”.

Splendido esempio, e ci sono poi piccoli atti di carità, come quelli della famiglia Tortolo di Palmanova, che lanciava patate e verdure oltre il filo spinato, dai campi che lavorava a Visco, vicino al lagher, o di Renato Zuttion, di Joannis, che portava nel campo (lavorava alla costruzione della chiesa) qualche pezzo di sapone, o di “Angelin” Terenzani, Palmarino, batti pompe d’acqua nel campo di Gonars, che spartiva la merenda con gli internati. Da questo recupero di gesti solidali si parte per ritessere amicizia su quello che fu anche il “confine buono” (Celso Macor), che soffrì l’offesa più grande e rende doverosa ed emblematica la conservazione di luoghi della memoria di una umanità violata, ma capace di rigenerarsi.

In foto Milutin Burghič e la cartolina postale di Milutin al segratario Gigante. 

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