Alda Merini e Sylvia Plath, tra donne e poesia: due mondi insieme a èStoria

Alda Merini e Sylvia Plath, tra donne e poesia: due mondi insieme a èStoria

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Alda Merini e Sylvia Plath, tra donne e poesia: due mondi insieme a èStoria

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 28 Mag 2023
Copertina per Alda Merini e Sylvia Plath, tra donne e poesia: due mondi insieme a èStoria

Le due poetesse a confronto, entrambe con vite segnate nel profondo, che hanno racconto sé stesse e cosa significhi essere donna.

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Trentuno anni. “Oggi ne avrebbe novanta”, ha iniziato con l’introdurre Sylvia Plath l’insegnante triestina Anna Piccioni. Si è aperta così, il 27 maggio, la conversazione di poesia su Alda Merini e Sylvia Plath, tenutasi presso la mediateca Ugo Casiraghi a Gorizia per èStoria insieme a Elena Giacomin. “Aveva l’abitudine di alzarsi molto presto. Preparò la colazione per i figli Nicholas e Frieda, poi lasciò un biglietto” e si tolse la vita. “Era appena stata lasciata dal marito Ted, dopo che lei aveva fatto molto per lui, copiava alla macchina da scrivere, era la sua segretaria”. Sylvia era bella, “abbronzata, alta un metro e settantacinque, cosciente della propria bellezza”, amava gli uomini.

Inizia a scrivere versi a 8 anni, “sapeva di essere eccellente, ma aveva grossi difetti. Non capiva perché le altre la considerassero inferiore, era gelosa”. La sua determinazione la porta a vincere una borsa di studio, “le viene offerto un lavoro come insegnante, che le porta via del tempo”. Era molto severa con se stessa, nel suo diario ripete “Tu devi scrivere”, per poi chiedersi “Perché non mi godo la vita?”. Nei versi de “L’aspirante” s’intravede quel matrimonio di convenienza con Ted, un vivere all’ombra di un uomo che forse non la ama davvero: ”Sa cucire, sa cucinare, /sa parlare, parlare, parlare. /E funziona, non ha una magagna”.

Una poesia tagliente, vibrante, “una poesia viva”, che nel 1982 le valse il premio Pulitzer, postumo. Era però una donna terribilmente fragile, la Plath, che “già a vent’anni aveva tentato il suicidio, procurandosi una cicatrice che le resterà fino alla morte”. Nel suo saggio “Il dio selvaggio” Alfred Alvarez affronta la tematica del suicidio da Petronio a Pavese, affermando come l’intellettuale intenda “uscire dalla vita, perché non accetta la sconfitta”, anche se la Piccioni ipotizza che avesse tentato di attrarre l’attenzione del marito. E con profonda tristezza leggiamo i versi di “Lady Lazarus”, dove si narra del suo tentato suicidio.

"La prima volta avevo dieci anni. /Fu un incidente. /La seconda volevo/andare fino in fondo senza ritorno. /Cullandomi mi chiusi/ come una conchiglia". Come Virginia Woolf, la Plath trasuda depressione. Per lei “morire/è un’arte, come ogni altra cosa./Io lo faccio in modo magistrale”. I suoi versi si ispiravano a Hieronymus Bosch, a Pieter Bruegel, come in “Due vedute di sala anatomica”, scritti basandosi sull’attività che svolgeva il fidanzato, studente di Medicina. Si tratta di scene terribili al limite della sopportazione. “La lingua è governata dall’enjambement, richiamandosi a Lawrence, T.S. Eliot, Dylan Thomas”.

Una poesia che è introiezione, specchio per conoscere se stessi, come accade poi per Alda Merini, che dedica una poesia alla Plath, mormorando “Povera Plath troppo alta per le miserie della terra”. A presentare la poetessa ambrosiana è stata Giacomin, a sua volta autrice di due testi poetici, che affronta la poetica femminile “come espressione del sé”. Nata a Milano, autrice di versi, prosa e aforismi, durante i bombardamenti del 1943 la casa dove viveva con la sua famiglia viene completamente distrutta, e Alda è costretta ad andare a vivere in provincia di Vercelli con la madre. Rientrata a Milano, tenta di iscriversi al ginnasio, ma non passa l’esame di italiano. Si avvicina allora a un gruppo di letterati, fra cui Giacinto Spagnoletti e Giorgio Manganelli, per il quale brucerà di passione. Una donna che ha “sofferto il dolore”, ma che ha profondamente amato.

La cui scrittura è un atto vibrante d’amore, che torna come un vento incessante, dove leggiamo “I versi sono polvere chiusa/di un mio tormento d’amore”, perché quando scrive “anelo il vento, il sole/e la mia pelle di donna/contro la pelle di un uomo”. Liriche delicate e intense, dove la donna si rivolge all’amato rivelandosi: “Amore mio/ho sognato di te come si sogna/della rosa e del vento”, e ancora, impetuosa: “Ah, se t’amo, lo grido ad ogni vento”. Amori travagliati, i suoi, perché Manganelli, sposato, si allontana per andare a vivere a Roma. Lei si unisce allora con Ettore Carniti, un uomo tranquillo, che tuttavia la costringe al ricovero.

Di qui il dolore, leitmotiv della sua vita: “Ieri ho sofferto il dolore”, inizia la lirica, per concludere con “un mare di dolore in cui naufragavo dormendo”. Dolcezza rassegnata per far fronte alla miseria del manicomio, dal quale emerge frastornata. La scrittura, allora, diviene un mezzo salvifico, quel porto sicuro in seno al quale sostare per allontanarsi dalle sofferenze. Poetessa dei Navigli, venne definita, perché la sua abitazione sorgeva nei pressi di Porta Ticinese. Invitata spesso presso le università di Milano, Alda era una persona umile, che amava trattenersi al telefono con chi le chiedeva della sua poesia, raccontando aneddoti dei nipoti.

Nel 2009 è stata candidata al premio Nobel, senza raggiungere il risultato sperato e continuando a sopravvivere grazie alla legge Bacchelli per gli artisti in difficoltà. Due anime, quella della Plath e della Merini, con un minimo comune denominatore: la sofferenza. L’una, fragile, se ne lascerà avviluppare. L’altra, risoluta, con una tal forza d’animo da trascendere ogni amore, cristallizzandolo in tenerezza infinita: “Amai teneramente dei dolcissimi amanti/senza che essi sapessero mai nulla”. Nessuno di loro saprà mai, ma i suoi versi l’hanno consacrata alla storia della poesia.

Foto Daniele Tibaldi

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