LA RECENSIONE
‘Nathan il Saggio’ al Verdi di Gorizia, una «fiaba-metafora» in cui l’amore fraterno supera ogni fede e apparente contraddizione
L’opera in due atti di Lessing, riscritta e diretta da Gianrico Tondinelli, è andata in scena domenica 2 novembre, tra gli eventi di chiusura del Festival del Dialogo Interreligioso.
Gorizia, 2 novembre. Al Teatro Verdi, la mattina, va in scena “Nathan il saggio”, considerato il capolavoro di Gotthold Ephraim Lessing. L’opera in due atti, riscritta e diretta da Gianrico Tondinelli, reca il (fragrante) sigillo della “Compagnia del Pane”. Il contesto cittadino è speciale: il primo Festival del Dialogo Interreligioso, nell’ambito delle celebrazioni per Go! 2025, con Gorizia capitale della cultura europea. Domenica 2 novembre è l’ultimo giorno di una ininterrotta cavalcata di eventi, tavole rotonde e spettacoli. Stanchezza? Forse, ma che si dissipa all’alzata del sipario.
Due note merita la coreografia: scarna, ridotta all’essenziale, che colpisce subito cuore e fantasia dello spettatore. Un semplice sfondo di ambientazione orientale (sala del palazzo, esterno di una casa, palmeti) che sfondo e semplice deve rimanere, per lasciare spazio al messaggio che la fiaba racconterà. Sul palcoscenico, una panca, null’altro. È metafora del dialogo? È lì per accogliere, sostenuta da due anfore, che evocano altri concetti (contenitori - acqua, vino, olio - indispensabili per il sostentamento della casa) e forse rimandano all’uomo, alla sua “capacità”. Quel sedersi l’uno accanto all’altro, uno dopo l’altro, ci ricorda che i tempi non sono uguali per tutti, e nemmeno la storia, ma rimane il richiamo della condivisione (felice coincidenza il nome della Compagnia?). Una tavola unica, per condividere. Quindi, una panca, un gioco di luci, uno sfondo, una cornice di fumo leggero per ricordarci che si parla di una fiaba. Al regista non serve altro per apparecchiarla.
Magnifico è Nathan, il saggio ebreo (sempre l’ottimo G. Tondinelli), che esprime al meglio un personaggio che ha saputo superare “l’elezione” del suo popolo a favore di una comprensione umana (e che peraltro la valorizza); non è di meno il musulmano Saladino (A. Zanella), vivace figura, ignara del cliché che abita nel pregiudizio. Al contrario, la fanatica figura del patriarca cristiano (R. Poli) sconterà le note negative attribuitale dal testo, senza nulla togliere al livello interpretativo. Gli attori (tutti meritevoli di lode) comunicano l’entusiasmo che tutti li muove, e che si estenderà al pubblico nell’applauso finale.
Promosso quindi a pieni voti lo spettacolo, qualche sottolineatura a quanto ha fatto e che farà sedimentare in noi, in attesa magari di una sperata replica.
La storia è conosciuta: Nathan, ricco mercante ebreo, rientrato a Gerusalemme, scopre che la figlia Recha (che si scoprirà adottiva) coinvolta in un incendio, è stata tratta in salvo da un templare, precedentemente graziato dal Saladino. Sempre la vita chiama vita. Anche la morte conduce così le sue repliche, ma i risultati si oppongono: Vita contro morte. Nathan cerca il templare per ringraziarlo.
Entrano in gioco il frate che sceglierà la verità, Daja, la serva cristiana che cristianamente ha allevato Recha, Sittah, sorella del Sultano. Manca qui lo spazio per dar il giusto risalto a tutte le figure intervenute, ma non si può omettere la parabola dei tre anelli, che Nathan, interrogato riguardo alla fede più vera, spiega al Saladino: Un uomo lasciò al figlio amato un anello che conferiva al portatore la grazia di Dio e il favore degli uomini, perché poi lo trasmettesse ai suoi discendenti. Andò così, finché l’ultimo, padre di tre figli ugualmente amati, non se la sentì di sceglierne uno, e dell’anello fece altre due copie così da poter accontentarli tutti. Il giudice, chiamato poi a sentenza dai tre, ritenne essenziale solo l’amore paterno fautore del gesto, e consigliò loro di sommare alle virtù condivise dell’anello la propria carità e la devozione. Non la lite. Quanto alla sentenza, la rimandò ad un lontano futuro suo successore. Non penso serva sottolineare chi erano i tre figli, e l’anello conteso. E la sentenza? Per una volta, i tempi lunghi qui tornano a vantaggio della storia dell’uomo.
La fiaba, o forse meglio dire la metafora, è a lieto fine. Recha e il templare si scoprono fratelli e custodiranno così un amore ancor più grande, le fedi originarie si mescolano e cambiano soggetto per farci dire che, se gli argini sono gli stessi, l’acqua del fiume che vi scorre no. Con Lessing, accettiamo il pensiero che accomuna le tre religioni monoteiste nel segno della tolleranza, dell’amicizia, e dimentica il fanatismo. L’amore per il fratello supera ogni contraddizione, se mai ci fosse.
Concludo con un verso di Walt Whitman, poeta “diverso”, che dice di sé: “Contengo moltitudini”. Anche noi.
Foto Facebook Comune di Gorizia
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