Il Bunker del San Michele festeggia dieci anni d’apertura, quattro volontari raccontano la crescita del progetto

Il Bunker del San Michele festeggia dieci anni d’apertura, quattro volontari raccontano la crescita del progetto

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Il Bunker del San Michele festeggia dieci anni d’apertura, quattro volontari raccontano la crescita del progetto

Di Federico De Giovannini • Pubblicato il 20 Nov 2025
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Il complesso difensivo costruito a presidio del confine orientale durante la Guerra Fredda è visitabile dal 2015 grazie all’impegno di Stefano Cogni, Boris Cotič, Alberto Pastorutti e Yari Todon.

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Sul monte Škofnik, un’anticima del monte San Michele, è custodita una delle più marcate testimonianze della Guerra fredda nel Goriziano. Poco sopra l’abitato di Vrh/San Michele del Carso (comune di Savogna d'Isonzo), in linea d’aria con il cimitero, si apre nel sottosuolo un vero e proprio bunker scavato alla fine degli anni Sessanta come postazione di difesa in prima linea per controllare l’ex confine orientale, uno dei settori che la Nato considerò tra i più sensibili fino almeno alla caduta dell’Unione Sovietica.

Costruito tra il 1968 e il 1970 dall’esercito italiano e destinato alla fanteria d’arresto, con la fine del “mondo bipolare” il bunker fu nel 1992 dismesso, chiuso e abbandonato agli agenti atmosferici, mentre la natura carsica tornava ad inghiottire l’area anno dopo anno. Ma, nel 2010, un gruppo di amici con una passione comune per fanteria e infrastrutture difensive ha avuto un guizzo d’idea: cercare di opporsi alla «mattanza di manufatti storici» nell’aria in quel periodo, salvando almeno una delle postazioni della Guerra fredda presenti sul San Michele e interessate da un progetto di demolizione.

Ce lo racconta proprio Boris Cotič, che assieme a Stefano Cogni, Alberto Pastorutti e Yari Todon costituisce la “squadra” di quattro volontari attivatasi circa quindici anni fa per “salvare” il bunker rendendolo nuovamente fruibile. Un lungo iter burocratico intrapreso con le amministrazioni locali e con l’allora provincia di Gorizia e reso possibile dall’appoggio all’Associazione Nazionale Fanti d’Arresto, culminato nel 2015 con la firma della convenzione per la presa in carico e la gestione del sito e con l’inaugurazione per l’apertura al pubblico il 7 novembre dello stesso anno.

I quattro amici festeggiano così il decennale di attività divulgativa: un fine settimana al mese, sulla base delle loro disponibilità, conducono i visitatori, singoli o in gruppi, negli spazi scavati della postazione. I volontari fanno da guide, raccontando i lati tecnici e operativi della struttura, arricchita da veri e propri allestimenti che negli anni sono riusciti a creare reperendo ed esponendo varie dotazioni belliche dei reparti d’arresto in modo – racconta Cogni – da «ricreare uno stile museale».

Numerose sono state, nel tempo, anche le aperture settimanali concordate previamente con comitive in visita da Paesi europei e non solo; oppure le persone capitate letteralmente per caso e curiose di approfondire il luogo e la sua storia. «In dieci anni abbiamo portato più di duemila visitatori, proponendo visite guidate ed altre attività di vario genere – riferisce Pastorutti – sono venuti in visita concordata anche gruppi dall’estero, classi e scolaresche: non ci aspettavamo tutto questo seguito».

Il legame di Cogni con il luogo è ancora più diretto: durante il servizio militare obbligatorio, tra il 1990 e il 1991, l’uomo fece parte di un reparto d’arresto e più volte si recò nel bunker dello Škofnik per fini di manutenzione e controllo. Gli interventi che lo hanno riportato in auge, spiega invece Cotič, sono stati essenzialmente di «sfalcio della “giungla” di vegetazione che lo rendeva impraticabile», pulizia, verniciatura porte interne e «rifacimento di ciò che restava dell’impianto elettrico con led a basso consumo».

Il sistema difensivo si compone di due elementi principali, visitabili entrambi: la postazione M4, dotata di una cupola corazzata a quattro feritoie e pensata per il fuoco incrociato con mitragliatrici pesanti e poco più in là il posto di comando e osservazione, fatto di sale sotterranee concepite per coordinare eventuali operazioni e comunicare gli ordini. Tutto ciò rappresenta un patrimonio civile che fornisce una finestra su un’epoca di tensioni, un segno della memoria che per decenni era rimasto sepolto nel paesaggio carsico. «È una parte di storia del nostro territorio che per molta gente resta pressoché sconosciuta nonostante vi siano stati degli anni in cui quasi metà dell’esercito italiano era dislocato in Friuli Venezia Giulia» commenta Yari Todon.

Ora, dopo dieci anni, Cogni riferisce che la soddisfazione del gruppo è grande perché «abbiamo visto molto gradimento e interesse dei visitatori nel conoscere queste particolarità del territorio». I progetti d’ora in avanti, anticipa infine, «riguardano alcune intenzioni di miglioria del sito», ma anche un ulteriore metodo di divulgazione: «Prossimamente verrà pubblicato un libro a tema improntato sulla narrazione tecnico-storica, il resto è ancora da vedere». Conclude con degli auspici anche Todon: «Sarebbe bello fare rete con altre associazioni che si occupano di siti storici della Guerra Fredda, ma anche con il Museo del Monte San Michele per raccontare tutto il periodo che va dalla Grande Guerra agli anni Novanta: le vestigia del primo conflitto si trovano d’altronde a pochi passi dal bunker».

Ha collaborato Ivan Bianchi  

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