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‘Brokeback Mountain’ porta a Gorizia Malika Ayane, Edoardo Purgatori e Filippo Contri: «Una storia semplice come ‘Giulietta e Romeo’»
Lo spettacolo affronta il tabù dell’omosessualità sotto la regia di Giancarlo Nicoletti, e andrà in scena al Verdi mercoledì 19 novembre alle 20:45.
Una commistione di prosa, musica, riprese registrate e live cam, quella proposta nella versione italiana dello spettacolo “Brokeback Mountain” in programma per mercoledì 19 novembre al Verdi di Gorizia. Una pièce incentrata sul racconto di Annie Proulx, dal quale nel 2005 venne sviluppato il film “I segreti di Borkeback Mountain”, Leone d’Oro alla 62esima Mostra del Cinema di Venezia. Al 2023 risale invece la versione londinese di Jonathan Butterell andata in scena al Soho Theatre, dove l’intimità fra spettatori e attori era sublimata dalla struttura circolare del teatro di Dean Street. A interpretare in questa versione italiana le musiche di Dan Gillespie saranno Marco Bosco al piano, Paolo Ballardini alle chitarre e Massimiliano Serafini per basso e contrabbasso, con la partecipazione della splendida Malika Ayane. Una produzione Teatro Carcano, Altra Scena, Accademia Perduta Romagna Teatri e GF Entertainment, interpretata dall’abile regia di Giancarlo Nicoletti, che ha concesso un’intervista alla nostra redazione.
“Brokeback Mountain” è una storia d’amore, ma anche di accettazione del diverso, ancora fortemente attuale. Un tabù, l’omosessualità, del quale è tempo di liberarsi?
Ritengo che vent’anni fa il film suscitasse scalpore in quanto determinate tematiche venivano affrontate con un taglio diverso. La novità era rappresentare per la prima volta l’omosessualità mainstream con un grande film di Hollywood in un contesto estremamente maschile, maschilista, machista: quello dei cowboy e del mondo rurale americano. Nel frattempo, si è verificata un’evoluzione del costume e della società, anche se il tema resta incredibilmente attuale e periodicamente si ripresenta. Un po’ come accade per la democrazia, che pare conquistata per poi ricordarsi che bisogna continuamente difenderla. Un tema che non cesserà mai di essere attuale perché l’involuzione è sempre dietro l’angolo. Nonostante in vent’anni siano state compiute conquiste importanti, sia in termini di diritti che di percezione da parte della società, l’attualità vale come una sentinella d’allarme per tenere sempre alta l’attenzione su diritti e libertà.
Le musiche di Dan Gillespie Sells sembrano intersecarsi alla storia fungendo da cassa di risonanza per le emozioni dei protagonisti. Assolutamente, c’è una commistione totale, il pubblico non avverte lo stacco fra parte musicale e teatrale, è un unicum in cui l’uno si serve dell’altro attraverso un rapporto osmotico fra musica e parole, tanto per raccontare la storia quanto per dipingere scenari, interiorità dei personaggi e intreccio.
Veniamo all’adattamento teatrale: il primo a lavorarci è stato Ashley Robinson, estrapolandolo dal racconto di Annie Proulx. La tua regia conserva la versione di Robinson?
Sì, a livello di struttura dell’adattamento, ma nella traduzione c’è la trasformazione in lingua italiana, per la quale abbiamo avuto la libertà di riarrangiare i brani musicali in linea con l’economia della nostra produzione. Rispetto alla messa in scena londinese il nostro spettacolo è abbastanza distante. Poi con i diritti abbiamo realizzato una versione italiana.
Com’è stato lavorare con Malika Ayane?
Semplicissimo, Malika ha abbracciato il progetto con totale dedizione e le sta molto a cuore, si è posta nella maniera migliore in cui l’artista si può porre, mettendosi a disposizione della compagnia e della regia e inserendosi nel contesto senza pretendere che fosse costruito intorno a lei. È un atteggiamento che ho apprezzato molto, straordinario per un’artista della sua caratura. Come pochi spesso capiscono, sa cos’è il teatro, sa che è necessario un lavoro di squadra.
Che tipo di messa in scena hai sfruttato, per moltiplicare gli sguardi?
Una messa in scena che fonde teatro, musica dal vivo e cinema, in quanto c’è un’importante parte video - sia di materiale registrato in location vere, montagne, animali, contesti che potessero ricordare il Wyoming degli anni Sessanta - sia telecamere dal vivo in scena, che in diversi momenti spiano e danno la possibilità di avere quel primo piano che al teatro manca, ma non al cinema.
È come guardare attraverso il buco della serratura?
Esattamente. Diversamente che nella versione di Londra, riprodotta sempre negli stessi ambienti del Soho Theatre senza tournée. Era un teatro di quattro-seicento posti con il pubblico tutto intorno, dove gli attori recitavano al centro. Questo consentiva un’intimità diretta, perché il pubblico si trovava a un metro o due, a volte con gli attori di spalle o di lato. In Italia non si può riprodurre, si va in tournée in teatri grandi di stampo classico, con il pubblico da un lato e gli attori dall’altro. Una modalità assolutamente irriproducibile in Italia, mentre in questo caso abbiamo cercato di ricreare la nostra intimità attraverso altri mezzi espressivi.
So che nel Regno Unito c’è una tradizione più radicata e si va spesso a teatro, molto più che da noi.
Anche la qualità è diversa, infinitamente più alta. Il peggiore dei loro spettacoli è comunque dieci volte migliore con un business completamente differente: stanno in scena 22 – 23 anni nello stesso teatro, tutti i giorni, due repliche al giorno. “Les Misérables” ha 40 anni di recite, debuttò nel 1985 ed è ancora lì. In Italia quando fai tre settimane è tanto. Lì non ci sono finanziamenti pubblici.
Da cosa dipende, questa divergenza?
Intanto dalla tradizione storica, da una qualità maggiore, da un dialogo con il pubblico abituato a un teatro di altissima qualità. Da noi la cultura gastronomica e l’economia sono strettamente legate. Il teatro, per gli inglesi, è come per noi la ristorazione.
“Brokeback Mountain” è un luogo dell’anima, quasi uno spazio indefinito nel quale i sentimenti prendono vita…
Sì, è vero, perché i due amici si trovano improvvisamente a diciannove anni in questo bozzolo solitario per tutta l’estate, in questa bolla che li protegge, in un certo senso, dove si è soli con l’altra persona in un luogo dell’anima. Ce lo dirà alla fine anche uno dei due, quello che muore, ammettendo di voler essere sepolto a Brokeback Mountain in quanto per loro diviene un luogo mitico, a cui hanno legato la gioventù, l’amore - l’unico amore, il primo amore - il sesso, il primo sesso.
Edoardo Purgatori e Filippo Contri (Annis e Jack) sembrano incarnare il lirismo di Eschilo, Saffo, Sofocle o Platone. È un desiderio rappresentato in trasparenza, incombente ma taciuto?
Non scomoderei Saffo e Platone, perché questa è una storia d’amore senza parole. Saffo, Platone o Catullo sono poeti e utilizzano la parola. Qui viene usata pochissimo, non riescono mai a dirsi che si amano o a parlare del loro sentimento in maniera aperta, lo rimuovono continuamente. Vanno a letto assieme, sanno di amarsi, ma non riescono mai a dirselo per tutta la vita. Non possono fare a meno l’uno dell’altro, e sostanzialmente è un teatro di gesti, di colpi di testa, di momenti in cui la passione prende il sopravvento e loro stessi non sono in grado di gestirla. È un lirismo per astrazione o sottrazione, piuttosto che imperniato sulle parole. Annis e Jack dicono solo parolacce, sono due ragazzi sboccati di vent’anni dell’America rurale cresciuti in contesti violenti, poveri e senza genitori né scuola.
Per concludere, qual è la chiave di lettura per questo spettacolo?
È uno spettacolo tecnicamente articolato e imponente dal punto di vista della messa in scena, in cui si è però cercato di scarnificare, per raccontare una storia in verità semplice come fosse “Giulietta e Romeo”. Che non è solo una storia d’amore, ma intorno all’impossibilità dell’amore. Perché, se fosse una storia di amore e basta, in cui i due potessero stare assieme, sarebbe noiosissimo. (Foto, Teatro Carcano).
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